L’inferno è una fabbrica tedesca…

“L’inferno è una fabbrica tedesca…”: è questo l’attacco di un inedito di Demetrio Paolin sull’incendio della ThyssenKrupp ascoltato recentemente dalla sua voce. Un’emozione tripla, perché non me l’aspettavo, perché l’argomento tocca un nervo scoperto (ne ho scritto anche in questo blog) e soprattutto perché il testo sprigiona una forza straordinaria, simile – per quello che la scrittura può – a un incendo che scoppia all’improvviso. E che poi lascia una scia, un specie di inferno terreno, cerebrale e concreto.

Di Paolin avevo già letto Il mio nome è legione (2009) e La seconda persona (2011), pubblicati da Transeuropa. In essi mi aveva stupito l’asistematicità del procedere da fantasmi interiori, personaggi-pretesto per l’affabulazione. Che è racconto, riflessione e insieme trasfigurazione. O forse qualcosa di più grande e profondo: il ridisegnare un intero microcosmo secondo poche e assolute condizioni dell’essere, prima fra tutte il male, con necessità espressiva e autenticità coerente dall’inizio fino alla fine.

Fra usura del linguaggio, svuotamento di senso, dominio delle immagini e della serialità non è facile che uno scrittore sia dentro le cose che scrive sempre con la stessa potenza. Così capitano toni più bassi, esercizi di buona scrittura, vere e proprie evaporazioni d’autore, fra l’altro non sempre consapevoli.

E invece Paolin ha sempre energia, in questo ultimo scritto anche superiore e più convincente. La riconosci anche in quel risparmio di stile donato generosamente al pubblico con un inedito. Quasi a dire: ecco, è un pezzo ancora semilavorato, ma almeno la materia c’è tutta e ogni finzione è smascherata. E’ un po’ come l’acciaio prima di diventare oggetto. Un po’ come i corpi degli operai deformati dal calore.

La scrittura si stringe così alla realtà come farebbe quel fuoco maledetto, in un corpo a corpo tra necessità di riscatto e mimesi senza via d’uscita. Esattamente come la morte sul lavoro, risarcibile mai.

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