La pace dell’Unione

L’Unione europea ha vinto il premio Nobel per la pace. Una delle motivazioni principali è che da oltre sessant’anni contribuisce a promuovere pace, riconciliazione, democrazia e diritti umani in Europa. Molti nelle istituzioni e nei media hanno ripreso la notizia, confezionandone polpette celebrative di facile digeribilità. Due esempi a caso, appartenenti alla medesima cordata: il presidente della Repubblica e il giornale omonimo di una repubblica che non c’è più, anche per colpevole asservimento dei giornalisti. Il primo ha aggiunto che “contro la crisi è necessario cedere ulteriori quote di sovranità all’Ue”, come se la sovranità di un popolo sia scomponibile in quote e definibile con vocaboli da azionariato aziendale. Il secondo, in appendice al coro dei compiaciuti, ha inserito appena un paio di battute differenti ma prive di spiegazioni. A quali linee di tecnica e deontologia giornalistica si rifacciano certe sintesi così estreme non si sa. Si potrebbe parlare di pensiero unico se vi si trovasse un qualche pensiero, e invece si scrive per slogan: comunicativamente efficaci, veloci, obbedienti. Eppure quanto domande si muovono dietro a un nulla: di quale Europa parla la motivazione del Nobel? dell’Europa dei popoli o di quella delle élites? di quella dell’integrazione o delle disuguaglianze? di quella delle nuove elaborazioni politiche o dei mercati finanziari, dei debiti odiosi e dello strozzinaggio favorito e autorizzato? di quella dei “piani di aggiustamento strutturale”, cioè di sacrifici enormi e recessivi imposti soprattutto alle popolazioni della periferia, di Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna definiti sprezzantemente “pigs” (oppure “piigs”, se ci si aggiunge l’Italia, con quel suono prolungato che accentua lo sberleffo)?
Perché per commentare il Nobel per la pace all’Unione non si è aperto il microfono a chi manifesta in Grecia, in Spagna e nei paesi più colpiti dalla crisi? Perché non si dà voce a chi potrebbe spiegare come vengono imposti gli acquisti di armi sotto il ricatto della crisi stessa e della negazione di aiuti? Non sono le giacche indossate dalla cancelliera tedesca Merkel a umiliare il popolo greco, come certi nostri giornalisti vorrebbero far credere, ma la deregolamentazione del mercato del lavoro e le privatizzazioni selvagge, la diminuzione del salario minimo, i licenziamenti, il taglio netto delle pensioni e dei servizi, la svendita di un intero paese e della sua democrazia, le cariche a chi ha il sacrosanto diritto di manifestare le proprie sofferenze.
Vadano quei giornalisti a chiedere ai greci come commentano il Nobel all’Europa, ci vada Napolitano o ci si faccia accompagnare da Prodi. Sentiranno voci molto diverse, che evidentemente non hanno interesse a sentire. Perché se è vero che da sessant’anni in Europa non c’è una guerra, è anche vero che gli ultimi decenni rappresentano una pericolosa inversione di tendenza nella gestione delle democrazie, dei diritti umani, delle disuguaglianze. La pace si garantisce prevenendo i conflitti, non alimentandoli. Meglio non aggiungere altro, sperando che a Stoccolma non abbiano premiato un triste canto del cigno.

Questa voce è stata pubblicata in democrazia e contrassegnata con , , . Contrassegna il permalink.