Fino a quando c’è fiato

Nel titolo dell’ultimo libro di Andrea Bajani (Mi riconosci) si esprime forse una domanda che andrebbe volta in senso riflessivo all’autore (ti riconosci?), nell’ipotesi che il filo che ne tiene la scrittura (un monologo personale rivolto allo scrittore e amico Antonio Tabucchi fino agli ultimi suoi giorni, di malattia e di vita) sia uno scavo alla ricerca di sé. E di una perdita che si cerca di ricollocare, nel proprio presente e nel ricordo, a suo parziale risarcimento.
Sempre una morte che ci visita (nelle sue forme anticipatrici, nel suo combattimento con la vita che le resiste, nel suo farsi largo fino alla metamorfosi postuma e sostitutiva) apre spazi perturbanti nell’io. Che chiamano non a ricomporla, perché sarebbe impossibile, ma a ricomporsi, esattamente come fa chi resta con chi lascia, nei rituali brevi e necessari di un corpo da ricollocare.
Anche chi resta dunque si ricompone, in rituali prolungati e possibilmente vitali, in una riconversione parallela che conosce la fatica del lutto e della sua elaborazione.
Talvolta si sublima l’assenza – che è per sempre, dunque difficilmente accettabile – in un testo che la rielabori per diventare anch’esso per sempre, concorrendo con la morte e con il suo portato in un rito forse liberatorio, e rinnovabile all’infinito nell’atto del leggere e del rileggere.
A una spinta germinativa così potente non corrisponde però, nel caso di Bajani, una forza stilistica all’altezza del personaggio e del rapporto evocati. Spiazzante il tono che usa, una delicatezza femminile quasi di madre. E mai di figlio, ad esempio, oppure di scrittore che “riconosca”, in questo caso sì, il suo grande maestro.
Ciò potrebbe spiegarsi con un necessario pudore nel dire malattia, sofferenza e morte di un amico, ma in realtà mostra un appuntamento mancato con essenzialità e forza espressiva commisurate alla vicenda e ai sentimenti che genera. Proprio la delicatezza, e insieme il continuo rischio di spudoratezza nell’esibizione, sono il paradosso entro cui Bajani s’infila. Rischiando anche di non convincere per un’abile proliferazione di riflessi, più che di riflessioni, che quasi rasenta l’inautentico. Reiterate similitudini evitano infatti un vero corpo a corpo con la realtà, che viene ricoperta con rimandi e collegamenti in un monologo interiore mosso in superficie, con spunti dati che riverberano altro.
La giustificazione di trattare pudicamente, e quindi trasversalmente e non di petto, l’oscenità di una malattia e di una morte,  di fatto mostra un limite di approccio al senso ultimo di un doppio confronto: tra vita e morte e tra destini differenti, di uomini e di scrittori.
Viene il dubbio che la scrittura di Bajani si innesti non tanto su un sentimento profondo di dolore e di sua necessaria trasformazione, quanto su un pretesto (nel senso proprio di un’occasione che precede il testo) che evochi soprattutto pagine di letterarietà, in un gioco di specchi che allontana da un nucleo generativo. Che invece c’era, dentro un nocciolo veramente duro come la vita quando dialoga con il suo opposto, in appena due pagine quasi alla fine del libro, con Tabucchi che, in un letto d’ospedale e a soltanto due giorni dalla morte, detta implacabile al figlio il suo ultimo racconto. Parola per parola, fino a quando ne ha fiato:
“E così eravate rimasti lì, insieme, tuo figlio con in braccio la tua morte appena nata e tu che, stremato, ti eri girato su un fianco, ti eri aggiustato la mascherina e ti eri addormentato” (p. 122-123).

Da lì nasce anche, per Bajani, la scomoda posizione dell’intruso, di chi si insinua in una storia troppo intima per sopportare una dimensione pubblica e uno stile che ne sia all’altezza. Il suo farsene voce verso gli altri risponde brutalmente alla necessità dello scrittore di rinunciare anche alla propria intimità, pur sapendo che in certi casi essa ha più senso della scrittura stessa. Come la realtà, del resto, se ancora conta qualcosa.

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