Non più di un anno: racconto

La notte era fredda e la pioggia che tormentava il lucernario del bagno lo costrinse a scendere dal letto. Chiuse la porta che separava la camera dalle scale che scendevano in cucina. Altro non c’era in quella casa nel vicolo stretto, costruita forse da un pescatore con le sue stesse mani, insieme a barca e reti. A lui piaceva immaginarselo con la barca a un passo dalla casa, ormeggiata sul lato del canale più vicino. Con le partenze, dalla cucina intiepidita dal fornello fino al distendersi del vento sul mare aperto, e poi i ritorni, semplici rotte da seguire ogni giorno per conservare casa e pesca.
Si alzò presto e passò le dita sullo strato di vapore che proteggeva la finestra. Era senza persiane e si lasciava attraversare da tutto, dai rumori della strada, dal sibilo dei treni, da una campana che batteva tutte le ore.
Da lì vedeva, di traverso, il canale che dalla città si spingeva fino al porto.
A volte la finestra era lui, i suoi occhi, la sua attenzione. Come in quel momento, con le dita che si accanivano sul vapore che si riformava in fretta. Fuori era ancora buio, e oltre l’acqua scura del canale, dietro i lampioni in fila, si scorgevano le facciate delle case appoggiate una all’altra, differenti soltanto nel colore.
Tutte hanno persiane, pensò, persiane ben chiuse. Fra me e loro che ci abitano, e dormono ancora, forse questa è la differenza.
Sul retro delle case c’erano piccoli giardini, e davanti alberi. Affiancati ai lampioni, di notte ne erano l’ombra, una traccia viva del buio. Ritornavano in luce col salire del giorno, insieme alle due rive così differenti: giardini e colori oltre il canale e, all’opposto, vicoli stretti, conficcati sul fianco della strada fino al porto. Lì c’era tutto quello che serviva ma niente di più: facciate di mattone vecchio, poche finestre, un piccolo marciapiede tra la strada e le case, un faro.
Aveva visto fari di ogni tipo, piccoli e grandi, grezzi o protetti da una calce candida. Quando una nostalgia sorda gli cresceva dentro e non sapeva come curarla, si sforzava di ricordarne i particolari. Non era facile, le immagini si sovrapponevano perdendo contorni e riferimenti a luoghi precisi. Una lampada enorme dentro una gabbia di ferro arrugginito gli aveva tenuto compagnia per tante notti, con una luce densa che andava e veniva e consolava di una luna spesso assente, coperta da nuvole scure. Ma com’era il suo sostegno, di pietra o di mattone, di smalto vivo o corroso dal vento, e soprattutto: in quale luogo si trovava, quale lingua parlava il guardiano?
La memoria è salvezza, pensava, sollievo alla solitudine, un filo di senso che collega i giorni, ma è pure il coraggio di guardare dritto al passato e di soffrirne la perdita.
Lui aveva poco coraggio, ma quel poco gli bastava per partire ogni volta, per combattere la paura di restare. Per questo si teneva dentro il presente e poco altro, le immagini recenti, i mutamenti di poche stagioni.
– Non più di un anno e sarò via da qui. Quattro stagioni e basta, niente che si ripeta…

Questo si era detto all’inizio, e ora il ciclo si stava compiendo. L’inverno di fine febbraio assaliva la costa con giorni così freddi da sembrare infiniti, alternava a tradimento cielo e nubi, vento rabbioso e calma, sprazzi di luce più intensa. Il sole sempre più vicino, dopo il peso grigio delle piogge, suggeriva partenze. Erano brevi per chi tentava la pesca nell’arco di un mattino, e sempre lunghe per lui, uomo senza ritorno.
Il faro distribuiva un cono di nitore sopra le forme appannate da una coltre umida. Sembrava il gesto preciso e ripetuto di un seminatore, che getta speranza di futuro a intervalli certi, senza mai deludere. Ora però gli ricordava il presidio di una sentinella, il controllo notturno delle mura di un carcere, l’attenzione lucida e crudele su qualche prigioniero in fuga. E su lui, quando si era dissolto in una corsa senza fiato, sospesa tra un’altra possibile cattura e la protezione notturna di un paesaggio sconosciuto, impenetrabile.
Un faro gli era sempre stato vicino, in ogni luogo nuovo orientava la rotta, le manovre di avvicinamento, l’approdo. Come in quel giorno di quasi un anno prima, l’ultimo di febbraio.Aveva viaggiato nella stiva come un clandestino, aiutato da due addetti alle merci in cambio di una promessa: appena sbarcato, avrebbe scritto per loro una lettera alle famiglie, con notizie di buona salute e di ritorno imminente.
Durante la latitanza aveva appreso con difficoltà le lingue dei paesi attraversati, ma ogni volta aveva creduto che ne valesse la pena. Quei segni, che gli si muovevano in testa e poi scivolavano in bocca per diventare suoni e senso, lo stupivano sempre. Gli davano prova, anche, di un’attitudine in più oltre allo sforzo fisico e all’isolamento.
Masticare tra i denti qualche espressione locale, poi, lo aiutava a nascondersi e a farsi momentanee amicizie. Duravano poco, qualche fermata d’autobus o l’attesa ai telefoni, ma lui le collezionava nell’intimo e le riaccarezzava quando silenzio e solitudine diventavano duri come pietre. Allora quasi si materializzavano, riportando il saluto schivo di una donna o il giudizio di un anziano sull’instabilità del tempo.
In quell’ultimo viaggio la conoscenza di una lingua straniera era stata provvidenziale. Pareva fatta di geroglifici, e proveniva da una terra così lontana dalla sua che a stento credeva di esserci mai stato. Eppure c’era arrivato, con mezzi di fortuna e qualche piccolo inganno, come sempre. Se l’era ricordata al porto della partenza, quando aveva osservato a lungo, con prudenza, due giovani facchini. La pelle tirata, di un marrone chiaro dorato, gli occhi così stretti da sembrare socchiusi, i capelli corvini, lisci e lucidi come pomata da scarpe, gli fecero venire in mente un viaggio più complicato degli altri, terminato in una fitta rete di canali. Gli era apparsa all’improvviso, animata da imbarcazioni minuscole protette da tendine di iuta e pescatori accovacciati tra ceste traboccanti di pesce. Lì ogni scambio era un grido di consonanti aspirate, un suono basso che dal ventre esplodeva nell’aria in un gorgheggio tirato, senza il sollievo delle vocali.
Si fidò soprattutto del loro essere insieme, due uguali in mezzo a tanti differenti, nell’affanno dei preparativi e dei gesti di squadra che seguivano attenti per ripeterli senza sbagliare. Li avvicinò durante una pausa, parlando con gli occhi la lingua di chi deve difendersi. Lo compresero al volo, altre volte avevano incrociato sguardi di stranieri bisognosi di andarsene per chissà quale motivo. E avevano concluso che il motivo non conta, che il giudizio è un bagaglio di lusso da non caricare.
Gli chiesero nella loro lingua, l’unica che conoscessero, se voleva salire. Lui rispose nell’unica lingua che li avrebbe rassicurati, la loro. Non spiegò il perché del viaggio né gli fu chiesto, a un sì breve e necessario aggiunse qualche parola di cortesia. I due sorrisero meravigliati, nessun altro usava quei suoni familiari, né i compagni di fatica né la gente incontrata a terra. Erano i loro suoni, quelli, ma non li sapevano tracciare. Gli chiesero di scrivere una lettera, e con quella promessa cominciò un nuovo viaggio.
Il suo posto fu ricavato tra casse enormi di merci pesanti, una specie di cabina di tre metri per due. Da lì poteva uscire spostando il coperchio di una cassa utilizzato come parete. Accanto c’erano un piccolo bagno e una scala di corda, sospesa. Con quella poteva raggiungere una rientranza del ponte, e da lì respirare di nascosto l’aria di mare mescolata agli spruzzi.
In quella parte di stiva c’erano soltanto i due facchini. Da loro riceveva acqua e pasti improvvisati di cui ignorava la provenienza. Forse erano parte del loro cibo, forse provenivano dal carico, da qualche cassa diventata dispensa per necessità.
Il viaggio durò quasi un mese, nei giorni dal quattro al ventinove febbraio, tutti segnati a croce in un calendario da tasca coi mesi ripiegati uno sull’altro, a fisarmonica. La patina lucida tirata sulla stampa rendeva difficoltoso scrivervi, ma il desiderio di uscire da quel mese bisestile si era tradotto in un accanimento giornaliero, in un doppio solco praticato con forza a ogni salire del sole.
Non era necessario spostare la parete mobile per riconoscere l’alternarsi del giorno e della notte, la sua cabina era senza tetto e il chiarore penetrava di piano in piano fino alle viscere della nave attraverso aperture sovrapposte. I due facchini le risalivano scalandole più volte al giorno, cercando continue prese nelle corde per guadagnarsi la libertà del ponte e riempirsi gli occhi di tanto mare e di qualche terra in lontananza.
Da sopra venivano la luce, l’aria, forse anche il cibo. I medicinali senz’altro, perché quando sentì il gelo attraversargli la carne e scendere nelle ossa, da sopra gli portarono una scatola di polvere bianca. Sciolta in tazzine d’acqua, fu compagna della febbre per appena tre giorni, poi entrambe se ne andarono così com’erano venute. Allora si brindò con tre bicchieri di vino e lui segnò sul calendario, tutti insieme, i tre giorni passati.
Da sopra giungevano anche rumori, a volte voci di gente che parlava come lui, e gli si stringeva la pelle per l’emozione. Voglio tornare, questo era il pensiero fisso con cui chiudeva ogni giorno, scivolando presto nel sonno per abbreviare l’attesa.
Ma ogni giorno, per fortuna, per lui era diverso. La luce cambiava, cambiavano i rumori, le voci. Con un po’ di fantasia poteva immaginare la superficie del mare rispondere al vento con motivi sempre differenti: piccole creste bianche, ondulazioni più scure, striature assorbite e riemerse. Tutto questo accadeva oltre la sua dimora, fuori dalla sua vista, eppure l’occhio sembrava vedere, riconoscere.
Il rollìo della nave a volte lo cullava fino a sospendergli i sensi. Una leggera anestesia ovattava anche i rumori più forti: il fragore delle masse d’acqua, il sibilo acuto del vento e il lamento continuo dei motori, come di belve in cattività. Quelli erano i segni della forza immensa che sprigionava dal contatto tra natura e tecnica, e del suo sgomento per un controllo umano forse insufficiente.
Di quella nave non sapeva niente, né l’età, né il funzionamento, a malapena l’aveva osservata da sotto in su dalla banchina, prima di perdersi nella stiva. Gli veniva così di pensarla come una madre enorme, appesantita da una prole numerosa.
Avrà pure avuto un foglio con nome, data del varo, stazza, velocità, ma queste erano notizie che non lo riguardavano. Come i dati con cui era stato registrato, bollato e infine archiviato non riguardavano gli altri.
Lui non doveva governarsi o governare alcunché, ma abbandonarsi a qualcosa che conosceva poco, per associazioni di caldo e rumore, freddo e buio, luce e silenzio. Tutto si mescolava a caso, anche se sembrava dipendere da congegni sofisticati e nascosti. Così era la vita, in fondo, al di là di ogni apparenza.
Una volta si era ritrovato in una ciotola una minestra calda e densa, e mangiandola gli era sembrato di riconoscere il sapore del brodo di sua nonna. Erano passati tanti anni, ma quella sfumatura rosata che manteneva anche filtrato gli tornava in mente come il tocco segreto di un grande cuoco. Un cucchiaino di conserva, o una cipolla rossa che si scioglieva cuocendo, lasciando una traccia delicata… Vino rosso per curare la febbre… qual era il segreto? Lui non lo sapeva, e magari per questo il miracolo si rinnovava, come un sogno piacevole e ripetuto.
Un’altra volta gli apparve un amico d’infanzia, magro e infaticabile. Con le gambe graffiate seguiva un pallone, accennava a passarglielo e poi lo riprendeva con tocchi veloci. Lui non sapeva se ribellarsi o stare al gioco, tanto era tutto un sogno.
I due asiatici invece erano reali, e così la loro vita, regolata ogni giorno da un orologio interno. Appena alzati rigovernavano una cuccetta condivisa, fatta da letti sovrapposti e un solo armadio, per cibi e vestiti. Da lì era uscito il suo letto di fortuna: un sacco di indumenti che schiacciato diventava un materasso, un maglione ripiegato per cuscino e una coperta pesante e ruvida, da ospedale da campo.
I giorni in alto mare scorrevano tra pulizie e riordino, pasti nella stiva e rari turni all’aperto. I brevi racconti della vita di sopra erano un evento imprevedibile e se ne festeggiava sempre la sorpresa con un giro di liquore forte. In dosi misurate, però, perché arrivasse fino all’ultimo brindisi, prima dello sbarco.
I due narratori si alternavano nel riassumere in poche parole, scandite lentamente per farsi comprendere, quello che avevano visto e ascoltato. In una nave da carico non succede molto. Una volta, ad esempio, un mal di denti improvviso e feroce aveva colpito un caposquadra e si era materializzato in un ascesso duro come un chicco di caffè. Un’altra volta la radio aveva captato frammenti di dialogo tra due comandanti di navi. Più spesso, e più semplicemente, si manifestavano accessi di intolleranza verso quella prigione galleggiante, sospesa tra cielo e mare.
Quando aveva il sospetto che i due s’inventassero storie per scuoterlo dall’apatia, si sforzava di stare più attento. Con gli occhi meravigliati e un sorriso riconoscente chiedeva che ripetessero un termine, una frase. Era difficile esprimere un’invenzione in poche parole sempre uguali, e nella loro difficoltà a ripetere lui trovava conferma al suo sospetto.
Il ventinove febbraio si annunciò con una nota bassa tenuta a lungo dai motori, poi con lo spegnimento e il moto consumato in sobbalzi, fino all’inerzia. Seguì uno sfregamento di catene, poi qualche istruzione gridata a gola aperta: cominciava la fine.
Il correre veloce di ciascuno al suo posto, per l’esecuzione perfetta dell’ultima scena prima che calasse il portellone di prua, gli permise di recuperare con calma le sue poche cose. Doveva cancellare ogni traccia: via la coperta, il sacco, il maglione, la gavetta e un frammento di specchio usato per qualche rasatura. Il resto, la sua casa mobile contenuta in uno zaino enorme, fu passato in rassegna e riposto con concentrazione, in un rito che ripeteva a ogni arrivo per ricordarsi chi era e sentirsi più sicuro.
Rimaneva la parte più difficile, farsi guidare oltre l’uscita senza essere visto. I due asiatici, in frenetico movimento fin dall’alba, sembravano ignorare quest’ultimo appuntamento. Si spostavano tra sopra e sotto con l’agilità di due gatti e, tra tante incombenze, riepilogavano con gli occhi e con qualche misura presa a spanne le manovre di scarico.
Dovevano scaricare anche lui, e non si trattava di un carico leggero, per il rischio da correre e per il distacco. Comunque tutto fu affrontato con la semplicità di chi esegue e non si domanda perché. Lì risiedeva la forza di muscoli e mente, in un patto mai messo in discussione per puro istinto di sopravvivenza. Niente complicazioni, insomma, nemmeno nel giorno più bisestile di un mese bisestile, un giorno strano, di quelli che capitano a dispetto per confondere i conti.
Un ultimo giro di liquore forte, poi gli riservarono lo stesso trattamento di un carico scadente, infilato in un sacco da immondizia e trasportato fin dentro un cassonetto. Quando poté uscire dei due uomini non c’era traccia. Gli rimaneva dentro un gran vuoto, insieme all’urgenza di muoversi.
Si allontanò dalla zona del porto con il passo disinvolto di chi vuole evitare di essere osservato e si trovò sulla prima strada laterale al mare, un nastro grigio e diritto allungato sulla costa. Era ornato da case semplici, alte non più di due piani, a volte con giardini. Alcuni erano incolti, con sassi sparsi sulla terra, altri lavorati con ricercatezza, segnati da una qualche mania.
Dove non c’erano giardini, piccole piattaforme di cemento dalle geometrie minute incorniciavano le fondamenta delle case. Attraversate da ciuffi sparsi d’erbe spontanee, rappresentavano il massimo di ciò che la natura può offrire in stato di cattività. Lui che osservava quel miracolo di vita vi leggeva soltanto, per rispecchiamento, una tenace disperazione.
Vagando per i vicoli laterali e percorrendoli fino alla parte più antica dell’abitato, cominciò a farsi l’idea che quel paese fosse abbastanza grande per nasconderlo. Era in luoghi di quelle dimensioni che finora aveva trovato scampo, ricorrendo a pratiche ormai collaudate come la ricerca di un’abitazione, l’esibizione di un documento non suo e poche risposte pronte per chi avesse fatto domande.
Per fissare dimora ridusse al minimo i contatti: al primo cartello d’affitto si fermò e trascrisse nell’agenda nuova un numero di telefono. Un’altra agenda, con pochi riferimenti in una grafia indecifrabile, era stata eliminata a conclusione del soggiorno precedente.
Di agende aveva fatto scorta per bisogno d’ottimismo prima di fuggire, quando lo avvisarono che la polizia gli era vicina. Ormai erano trascorsi otto anni, archiviati in otto agende differenti, puntualmente sparite al compimento di ciascuno.
L’uso dei telefoni pubblici all’inizio gli era necessario, ma evocava ogni volta un pericolo sconosciuto, senza forma, che lo teneva sospeso dalla testa ai piedi in una sfida tutta interiore. Del resto, ogni prima necessità proveniva dagli stessi canali utilizzati da spie e inseguitori, non c’era alternativa.
Anche quella volta le dita insicure composero un numero, seguì un sibilo ripetuto che gli ferì l’udito e lo scosse dentro, poi giunse una voce. Era femminile, lasciava immaginare poco dell’età e della persona, accordava con gentilezza misurata un appuntamento scambiando poche parole.
Tutto si realizzò di lì a poco: la visita alla piccola casa vicino al canale, le istruzioni necessarie, il pagamento anticipato. Lui estrasse dalla tasca due banconote uguali, piegate e ripiegate, ne consegnò una e ripose l’altra, valutando tra sé il tempo che poteva servire per trovare un lavoro: un mese, o magari meno.
Era ancora giorno quando rimase solo. Una luce debole sfuggiva sempre più alla finestra del piano terra. Ripensò a quella giornata freddissima e limpida, e al primo incontro con quella donna.
Il sole rendeva più vivace ogni cosa intorno, il canale, le barche, i vasi di fiori alle finestre, le piante oltre la strada. Era un sole lontano ma diretto. Quando il vento si sospendeva, il suo calore riusciva a farsi sentire energico e incoraggiante, come in un attimo di primavera. Sotto quel sole aveva visto i colori di lei, occhi e capelli castani, vestiti semplici in bianco e grigio, e la sua gioventù timida e affannata, non da padrona. Se n’era accorto in un momento in cui la corrente del canale sembrava sparita, e l’acqua ferma rifletteva le loro figure in movimento. Si era voltato un poco verso di lei, e l’aveva vista liberarsi il viso dai capelli con un gesto che sembrava una carezza. In assenza di vento, in un’immobilità improvvisa e fuori dal tempo si erano guardati.
Poi lui rimase solo, di nuovo, con il solito vuoto e la fatica da fare per combatterlo.
Poteva sostituire quell’ultima immagine con altre, estraendole con precisione chirurgica dalla memoria degli ultimi anni. Metterle tutte in fila, ripetendone a mente descrizioni, parole, accenni di sentimento, era un esercizio che a volte faceva per non perdere anche quel poco d’umanità che gli era rimasta. Non sempre, però, resisteva fino alla fine, per un moto di sofferenza che saliva da dentro e gli si stampava sul viso. Nessuno lo vedeva ma lui sì, lo vedeva, dentro e davanti a sé, così provava compassione e la sofferenza aumentava.
Più raramente una leggerezza d’animo inconsueta lo invadeva all’improvviso e gli permetteva per poco di essere quasi felice. Allora abbracciava intimamente tutti, ma non capiva, in quella vertigine improvvisa, se si trattava di persone vere o soltanto di immagini.
Con le donne succedeva così. Da latitante ne aveva incontrate poche, per disattenzione obbligata, per prudente distanza. I corpi osservati da lontano sembravano altro. Da vicino, poi, mostravano un’indifferenza da cui si difendeva fingendosi altrettanto indifferente.
Quante volte gli era successo di guardare qualcuno negli occhi? Poche, e ogni volta aveva impedito al suo sguardo di diventare altro. E se altro era diventato, era stato mare, cielo. In una finta libertà lui disperdeva i desideri del corpo, che uscivano dagli occhi spinti verso una materia grande e incontenibile, d’una bellezza che ingannava i sensi rendendoli inutili. Si consolava così, perdendo ogni desiderio dell’altro in un annegamento indolore, e perdendo l’altro per la propria estraneità.
La prima notte scese lenta, ma lo sorprese ugualmente. Per prendere dimestichezza con lo spazio della nuova casa camminò a lungo sotto, sopra e poi di nuovo sotto, osservando ogni particolare. In cucina, i muri alternavano una vernice chiara, ingiallita dal tempo, e piastrelle dai motivi geometrici giallo e azzurro, opachi per il vapore rappreso sulla polvere. Se ripulite, forse potevano tornare vivaci.
Una stufa a legna al centro della parete d’ingresso avrebbe garantito riscaldamento, cottura e un po’ di compagnia, tutto quello che gli serviva. Il portone le era accanto, di legno vecchio dalle vene scure, ripassato all’esterno con vernice d’un rosso un po’ spento. Il tono gli ricordò certi paesi del nord, decorazioni natalizie e tappezzerie scorte oltre i vetri di case in pietra e legno. Altri luoghi, e sempre il suo sguardo straniero che coglieva a caso quel che poteva, quando si sollevava prudentemente da terra.
Ora quel rosso, proprio in faccia al mare, gli sembrava una sfida imprevista, un’intrusione del passato. Certi dettagli lo assalivano senza preavviso, portando spaesamento. Dove sono ora? e in quale luogo? Non aveva risposte, occorreva che passasse tempo per saperlo.
Provò a reagire preparandosi per la notte. Da quando era sbarcato la stanchezza si era caricata sul corpo per parti distinte. Ciascuna soffriva da sé, indipendente dal resto. Sentiva dolore alle gambe, bruciore nella linea dorsale e tensione che univa denti e tempie. Aveva smarrito la sua interezza, era disarticolato e senza centro.
Sollevò allora alcuni anelli della stufa, nell’apertura inserì un po’ di legna rimasta, estrasse da un giornale trovato per strada il foglio più interno, lo accartocciò e lo adagiò sulla legna. Sul tavolo c’era una scatola di fiammiferi umidi. Dei tanti che sfregò soltanto l’ultimo divenne fuoco, a dimostrazione che anche nelle piccole cose la salvezza può arrivare all’estremo. Svelto trasferì la scintilla alla carta stampata, che la accolse e avvampò fino a consumarsi. Per un attimo la fiamma si nascose dentro la cenere, poi passò al legno all’improvviso, in un crescendo di luce e calore. Ecco una piccola vittoria, pensò, una piccola miracolosa vittoria. Luce e calore scesero dagli occhi al corpo, sciogliendo lentamente ogni nodo. Abbandonato al presente ripeté più volte il suo nome, nel silenzio complice della notte che stava scendendo.
Fuori fu un rallentare progressivo di uomini e macchine. Anche lo spostamento dell’acqua, percossa sui fianchi del canale da barche in frettoloso rientro, s’interruppe. I rumori, le luci, i movimenti si sospesero in un’oscurità sempre più compatta. Pensando all’umanità della notte, all’ordine delle cose sottratte al moto, al riposo dei corpi che finalmente facevano rotta altrove, in se stessi, in altri corpi, nel sonno, s’addormentò seduto davanti al fuoco.
Sognò il pestaggio di un compagno di carcere, nella cella vicina alla sua. Il solo sentire il rumore sordo dei colpi, inferti agendo sulle parti più interne e vitali per non lasciare segni esteriori, diventò in lui impotenza e rabbia senza via d’uscita. Poi vide la morte del compagno e il suo corpo intatto, esposto a prova d’un arresto cardiaco definito casuale, e della perfezione raggiunta dai carnefici.
Seguì l’immagine della sua cella spalancata nel buio e si rivide in fuga, con gli occhi da felino e le gambe veloci e attente agli ostacoli, preparate da tempo a quell’unica possibilità da cogliere senza commettere errori.
Era tutto vero e già successo, ma si ripeteva in sogno tante volte, rilasciando un po’ d’angoscia e sudore. Alla fine, sempre la stessa domanda: chi gli aveva aperto la cella? Non lo sapeva, allora s’era immaginato la trappola di un carceriere. Poi il gesto generoso di qualcuno, c’è sempre speranza nelle scelte degli uomini. Non sapeva, ma fuggì come avesse saputo.
All’inizio non ci si rassegna alla tortura e lui, prelevato dalla cella soltanto due volte, era ancora nelle condizioni di fuggire. Così prestava attenzione all’ambiente e a ogni particolare, talvolta mescolando realtà e suggestione. Ad esempio, gli pareva che uno dei carcerieri avesse un atteggiamento meno ostile, e in questo andava depositando speranze.
Non aveva parlato, ma non ne era orgoglioso. In due interrogatori soltanto si è appena ai preliminari, intimidazioni e qualche scarica elettrica. Il manuale di tortura, tramandato oralmente dai reclusi, prevedeva una progressione di giorno in giorno più devastante. Nei primi giorni si era ancora in salute, lucidi e dignitosi, dunque non si parlava.
La fuga, arrivata come un dono anonimo e improvviso, aveva interrotto il programma. Sottrarsene, e senza averlo scelto, gli aveva lasciato un senso di colpa che ora si alimentava di interrogativi subdoli. Fosse andata diversamente, forse avrebbe parlato…
Come spesso gli succedeva si svegliò all’improvviso nel cuore della notte, con il busto contratto, il collo indolenzito e la testa confusa. Riconobbe subito la casa, i resti del fuoco, il tepore che lo aveva assopito e che ora, per le fessure degli infissi, si stava scambiando con l’aria fredda.
Fuori pioveva, lo capì dagli scrosci trascinati nel vicolo da raffiche improvvise di vento, poi dalle gocce che battevano insistenti sul lucernario del bagno. Salì le scale, entrò nella camera aperta sul ballatoio, raggiunse il letto e si distese guardandosi attorno nella penombra. Finito il fuoco, tutto diventò scuro e la pioggia gli fece compagnia fino al sonno, stavolta senza sogni.
Un riflesso più chiaro, appena percepibile nel buio, anticipò l’alba. Socchiuse gli occhi e poi li riaprì, contento di essere in terraferma, nella prima giornata di marzo, forse ripulita dal vento. Dalla finestra questo poteva intuire, mentre il calendario impresso nella sua mente scandiva i giorni, di viaggio e di permanenza. Spalancò i vetri e si sporse per scoprire la vista già familiare del canale, con poche barche non uscite in mare, sonnolente e senza un programma come lui.
La stanza di sotto gli apparve differente. La luce del mattino la rendeva più grande, impreziosiva la polvere di sfumature dorate, gli oggetti tornavano visibili e meno ostili. Estrasse dal bagaglio una vecchia camicia, la tagliò su un lato e con le mani ne fece quattro pezze. Liberò le superfici e con energia passò e ripassò ovunque, poi guardò in controluce il risultato e annuì con soddisfazione.
I vetri, anche se pochi, lo esponevano agli altri. Notarlo lo fece esitare: meglio lasciarli sporchi, visto che non c’erano tende. Poi, però, volle imporsi un comportamento normale e li pulì come meglio poteva, con carta di giornale, acqua e stracci. Terminato, accostò gli unici battenti che c’erano, quelli della porta-finestra a piano terra, più per proteggere il pulito che se stesso.
Uscì. I pochi soldi rimasti lo spingevano alla ricerca di un lavoro. Prese a camminare lentamente sul lato destro del canale, tra l’acqua e la strada, osservando con attenzione. Le barche in sosta dondolavano appena sulla superficie dell’acqua. Del vento che aveva animato la notte era rimasta una brezza fresca e incostante. Forse, in quella giornata, era difficile prevedere il tempo. Molti pescatori erano usciti, alcuni no, e nemmeno intendevano farlo. Le loro barche inabitate erano là, con le reti ripiegate e nessun preparativo di partenza.
Giunse al ponte di collegamento tra le due rive. Oltre, le sponde del canale si allargavano e accompagnavano l’acqua fino a disperderla nel mare aperto. Il porto era a destra, lì rientravano i pescherecci e si organizzavano vendite e manutenzioni.
Svoltò e gli si presentò davanti una frenesia di attracchi, di carichi e scarichi, di cassette di pesce rovesciate sulla banchina. Si compravano e vendevano pesci, barche, lavori, accordandosi e stringendo mani in un gioco continuo di valutazioni e di scambi. Si gridavano prezzi in una lingua gradevole, un giro di suoni morbidi e di acuti spuntati, in adesione a un’eleganza antica e naturale.
Sullo sfondo si allineavano alberi fitti come in una foresta. Tra gli scafi vicini fino a sfiorarsi il mare quasi non si vedeva. A guardar bene, dove i fianchi dei pescherecci si stringevano fino a diventare prue, si annidavano nicchie d’acqua ferma e scura, dalla superficie oleosa. Quell’acqua doveva pesare più del mare aperto che s’intravedeva oltre gli alberi. Doveva pesare di lavoro e di manovre continue. Si spostava sotto la spinta di partenze e rientri, per la stizza con cui la riva veniva allontanata ogni volta, facendo leva sul bordo della banchina. Si partiva da lì come lui dalla sua terra, con una mossa d’inizio innaturale e necessaria.
Lo presero a vendere pesce. Lavorava sulla terraferma dalla mattina presto fino a mezzogiorno, tutta la settimana esclusa la domenica, per un salario minimo che, a conti fatti, gli garantiva poco più del mangiare. Le sue giornate erano segnate dal sorgere del sole fino alla sua massima altezza, dal silenzio della casa nelle ore di riposo, dai rumori fitti come reti, dallo scambio tra merce e denaro, sempre uguale e sempre ripetuto.
I suoi padroni erano tre soci, proprietari di un peschereccio e pescatori da sempre. La loro unione faceva la forza di sei braccia e tre volontà, assicurava dagli imprevisti e non risparmiava lavoro.
Al mattino lui arrivava in anticipo per seguire da terra il rientro dalla pesca. Dall’esito delle spedizioni e dalla stabilità del sodalizio dipendeva la sua sopravvivenza. Il peschereccio conosceva i segreti delle correnti e i trucchi per tenere la rotta, e lui lo vedeva vivo, nella prima luce, tagliare la cresta delle onde con la sicurezza di un pesce.
Alla sera, quando la libertà dal lavoro diventava un vuoto, a volte tornava al porto e scrutava le sagome delle barche confuse con l’oscurità. Si sforzava di mettere a fuoco il peschereccio per essere sicuro che ci fosse, perché tra realtà e sogno non sempre sapeva distinguere.
I giorni scorrevano secondo un programma che non ammetteva varianti. Presentarsi al lavoro era la prima regola, anche malato o dopo notti insonni. E quando il mare si rivoltava, sconvolgendo la calma del porto con raffiche di vento e schiaffi d’acqua che battevano legni e corde, lui c’era ugualmente, pronto per una nuova giornata anche senza pesce da vendere. Raramente lo rimandavano a casa, perché in quelle giornate bisognava salire sul peschereccio e controllare, riordinare, riparare piccoli danni.
Ogni volta soffriva di una nausea fastidiosa che provava a nascondere perché il mal di mare in una bacinella d’acqua era quasi un affronto. Conteneva il bisogno di liberarsi fino a casa, dove arrivava appena in tempo per abbandonare quel che il mare finto gli aveva rimestato dentro. Alleggerito del peso, si stendeva a letto aspettando con pazienza che tutto intorno ritornasse come prima, e lui anche, perché dentro quella ninna nanna atroce si sentiva perso.
Un mese esatto dopo l’arrivo, lei suonò il campanello e lui, prudente, si sporse dalla finestra. La sentì dire con un filo di voce: è per l’affitto, rispondendo al perché fosse lì. Da allora lui avrebbe conservato muta la sua domanda, legandola a una speranza segreta. E la sua umanità avrebbe preso forma, diventando quello che gli era possibile.
Eppure lui era uno che aspettava a terra, che abbracciava la superficie dell’acqua soltanto con lo sguardo, credendo comunque di non perdersi nulla. Lui non sfiorava nemmeno una risacca, una piccola corrente spezzata dalla spiaggia. Aveva passato anni dentro un involucro di carne spessa, dalla sensibilità atrofizzata. Ora una corrente più forte lo spingeva fuori.
Lei si presentava a ritirare l’affitto ogni mese, con regolarità, comportandosi come se i soldi non la riguardassero, come se la casa non fosse sua. Non c’erano altre occasioni per incontrarsi, ma quelle bastavano a far crescere le parole e l’attesa per il mese successivo.
La prima volta lui aveva guardato lontano, come a dire: se passi la porta lo fai per tua scelta, io sono altrove. O anche qui, ma da solo. Forse accadde per una reazione inconsapevole del corpo: poteva restare sulla porta e invece si scostò appena di traverso, lasciando un piccolo passaggio che la incoraggiò. È per l’affitto, aveva detto. Forse pensava che lui non potesse pagare? Ecco l’affitto, subito, ecco la seconda banconota, piegata e ripiegata, pronta dal mese scorso. La estrasse dal cassetto del tavolo di cucina lentamente, perché lei potesse notare anche l’altro denaro guadagnato al porto.
Lavorava, lui, tutti i giorni lavorativi di tutte le settimane, arrivava in anticipo e non si dava pause, parlava poco per lavorare di più, sceglieva il pesce pesandolo prima con le mani poi con la bilancia. E lo incartava, sempre con precisione.
Guardava appena le donne, anche quando gli facevano richieste esigenti, le guardava soltanto per rassicurarne gli acquisti. E annuiva ogni volta che incassava soldi non per compiacimento, ma per dirsi: sto lavorando bene. Così si era meritato la fama di grande lavoratore, di uomo serio, poco loquace perché onesto. Un latitante poteva comportarsi altrimenti?
Eppure c’erano giorni di sole improvviso, di nitidezze che ricordavano l’infanzia, con nuvole leggere che, in movimento, cambiavano velocemente forma. Appena uscito, si sentiva parte di una libertà irresistibile che respirava a pieni polmoni e gli usciva dagli occhi. Arrivato al porto quasi non lo riconosceva. La banchina asciutta odorava dell’aria che passa sopra il mare senza bagnarsi, di profumi trasportati da altre terre.
In giorni come quelli la dura maschera della disciplina gli scivolava via e lui rischiava d’esplodere in sorrisi incontrollati, in risate piene. Sentiva il contagio passare tra la gente e attraversarlo, scaldarlo come farebbe un corpo più vicino.
Indugiava in quegli stati d’animo quel tanto che bastava per non perderli per sempre, poi l’autocontrollo tornava a rimettere in ordine.
È per l’affitto, gli aveva detto, ma si trattenne qualche minuto oltre la consegna del denaro, avvenuta con uno scatto troppo veloce per sembrare sicuro. Lei ignorò il gesto e gli chiese se lì si trovava bene, se gli mancava qualcosa, per quanto tempo si sarebbe trattenuto. Quelle domande le uscirono di seguito, senza pause, nel timore che le tornasse indietro un silenzio assoluto.
Gli abitanti del luogo sapevano poco di lui. Conosceva la lingua del posto, forse aveva studiato, ma di sua iniziativa non parlava con nessuno. Se era sollecitato a farlo, piuttosto annuiva, sorrideva, dosava a monosillabi la sua disponibilità. Non esprimeva mai un pensiero, un commento, un’osservazione. Non si sa come la pensa, tutti finivano per dire, ma è così di carattere, non ha segreti. In un continuo esercizio di pazienza la sua vita scorreva apparentemente tranquilla. In realtà era sempre in allerta, ma nessuno se ne accorgeva. Nemmeno lei.
Le rispose garbatamente: in casa si era ambientato, l’essenziale c’era. Disse anche che desiderava leggere un libro che lì in paese non si trovava. Così distolse l’attenzione dalla terza domanda, alla quale non voleva rispondere.
Lui amava le storie d’ogni parte del mondo, gli cambiavano in testa scorrendo i paesi nella carta geografica. E amava la libertà. Non sapeva definire cosa fosse esattamente, ma non gli piacevano i modi con cui si toglieva o si dava. Tutti quei modi contenevano gradi diversi di paternalismo, da uno zero che era materiale fino a un massimo, subliminale. Anche la violenza aveva misure variabili, e forme esplicite riservate ai corpi, oppure invisibili, inoculate nel profondo. Aveva conosciuto il grado zero che marciava a passi pesanti, con il ritmo di un esercito intero e la volontà di una sola testa. Aveva previsto i disastri successivi e colto l’inutilità di ogni riflessione: bisognava scegliere in fretta.
Così aveva fatto il possibile per una libertà che non sapeva definire. Aveva aiutato gli oppositori, sfamando chi era più capace di lui di elaborare teorie, senza domandarsi cosa quelle teorie avrebbero generato in futuro: qualcosa di simile alla sua libertà, forse, o qualcosa in cui non si sarebbe riconosciuto. Allora, però, si era a zero, e bisognava darsi da fare. Per questo aveva abbracciato l’entusiasmo dei giovani e l’esperienza dei grandi, i conflitti tra spontaneità e ragione, sperando in una sintesi nuova e soprattutto in azioni efficaci.
Lo presero in cucina, mentre preparava una zuppa. Tanta per un uomo solo, ma non lo arrestarono per quello: quando si è a zero anche la solitudine è sospetta.
I suoi libri finirono in strada, distrutti. Anche quelli di ricette, che gli avevano insegnato a cucinare per gli altri. I soli per cui provò dispiacere, il resto era un ammasso inutile, una prova del tempo trascorso a non capire. I giornali descrissero un uomo strano e confuso, ignorando così la sua scelta.
Non rispose alla terza domanda, né parlò del passato, ma il libro che desiderava leggere fece eco in lei fino al mese successivo. Di nuovo suonò il campanello e da sotto, con voce un po’ più alta, chiese l’affitto. Lui le aprì, lei aveva in mano qualcosa. Impacciata, guardava in basso mentre si spingeva in cucina e appoggiava sul tavolo un pacchetto dalla carta preziosa.
Lui aprì il cassetto, estrasse i soldi che aveva preparato in anticipo, li consegnò e rimase in attesa di una spiegazione. È il libro, gli disse. Lui ringraziò con un cenno e sollevò i lembi di carta lentamente, per non sciuparli. Separò l’involucro e lo stese più volte con le mani per eliminarne ogni piega. Sfumature dal grigio perla al lilla somigliavano a un pezzetto di cielo, cangiante dopo una pioggia estiva.
Vide il libro: un’edizione vecchia, di quelle vendute nei mercati a metà prezzo. Copertina intatta, spessa e patinata, pagine mai sfogliate. Apparenze, pensò.
Bisognava liberarsi dalle apparenze per vivere davvero. L’accompagnò alla porta facendo di sé un muro spesso, senza emozione, ma mentre salutava, per un attimo, negli occhi gli brillò una piccola allegria.
Solo col libro, risentì tutto il silenzio degli ultimi anni e l’ansia che cresceva. D’istinto aprì una pagina a caso e vi scorse un ritmo profondo, originario. Confuse il suo respiro con quello e si sentì meglio.
Trascorse un altro mese così, tra fatica e nostalgia, azione e abbandono. Lesse e rilesse, ma nessuna delle donne raccontate somigliava a quella.
Ci vollero tutti i mesi d’un anno intero perché l’intimità crescesse, con emozioni che andavano e venivano alternandosi all’incertezza. Ciascuno manteneva una sua zona franca, uno spazio non disponibile. Era libertà o costrizione, forza o incapacità? Chi per primo aveva posto un limite? Difficile a dirsi, l’adeguarsi reciproco era stato immediato.
Avesse potuto, le avrebbe confidato la necessità di vivere così, di andarsene ogni anno. Invece, senza dire parola, aveva trasferito quel limite su lei, e lei l’aveva accolto come suo, confondendosi.
Anche così era tanto, troppo per lui, che centellinava quella compagnia bevendola a piccoli sorsi. Sorbì l’ultima goccia allo scadere di quell’anno così intenso, quando le spiegò che l’età gli faceva vivere ogni incontro senza bisogno di futuro. Le parlò anche di una stanchezza nuova che lo avvolgeva. Certo che era sensibile, certo, niente era andato perduto, finora. Ma poi? Aveva tanto mare davanti, e desiderio di quello che da lì non vedeva. Insomma, stava cambiando stagione. Quelle parole le arrivarono inattese in risposta alla terza domanda, e tanto le bastò.
Un inverno difficile aveva limitato la pesca. Sarebbe stato meglio partire prima, ma lui si trattenne fino a febbraio, nascondendole ogni privazione dietro sorrisi sempre più aperti.
Il primo marzo nascose la sua vita in un bagaglio essenziale per trasportarla altrove. Lasciò due stanze appena, il canale, il porto, e un nome da non nominare per salvarsi.
Salito a bordo orientò il corpo a nord, anticipando la rotta. Sulla schiena rivolta alle case gli corse un brivido, ma non si voltò. Pensò nella lingua del luogo quel nome mai nominato e poi il mare, stupendosi della somiglianza.

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