Una neve perfetta: racconto

Appena dopo la sua nascita la neve smise di cadere. Il sole era coperto da una volta compatta di nuvole d’un grigio chiarissimo e lì dov’era, nel punto più alto del cielo, il grigio diventava bianco così luminoso da non poterlo guardare. La tregua era giunta inattesa, come il parto, anticipato e veloce, annunciato da un solo vagito breve nel silenzio ovattato della casa. Così la madre consegnò al giorno sua figlia, e le sembrò una fortuna. La notte era stata lunga, senza luna, senza nemmeno un chiarore, e aprirsi alla luce fu per lei una liberazione.
La bambina crebbe come crescevano i figli in quell’angolo stretto di valle: con pochi cibi, pochi gesti, un amore essenziale e ruvido, sempre incombente, come i profili grezzi delle montagne. La neve d’inverno era dovunque, e lei ci viveva insieme imparando a osservarla. Riconosceva le infinite combinazioni di ghiaccio e pioggia, i tentativi non riusciti di una neve perfetta, fatta di fiocchi grandi, morbidi, sospesi nell’aria in assenza di vento. Quando, raramente, la perfezione si realizzava, la sua incredulità diventava certezza nella riproduzione di ogni dettaglio: lei disegnava la neve così come le sembrava, fitti aghi bianchi intorno a un cuore minuscolo, invisibile come il sole della sua nascita, come un’energia sfuggente. Riempiva fogli interi con la stessa cifra, ripetuta con pazienza e convinzione. Quella era l’unica neve che sognava e voleva.
Il resto era disordine del cielo e dei venti, che insidiava piccoli e grandi equilibri: un sentiero battuto diretto all’alpeggio, un ruscello immobile nel ghiaccio, un giorno di limpidezza assoluta, dalle cime più alte fino alle case. Bastava poco a confondere la direzione del vento, a smuovere le acque, a scombinare il disegno di una natura coerente.
Lei cresceva imparando a riconoscere normalità e imprevisto, armonia e disordine. Accoglieva gli eccessi, che i grandi chiamavano errori di natura, misurandoli ogni volta con impegno. Annotava punteggi, così come disegnava la neve, esercitando il coraggio di stare al mondo. Registrava tracciati di vita desiderata e di vita vissuta, intermittenze di un’intelligenza a due ritmi, di respiro e di apnea. Di un’intelligenza incapace di sintesi, che non ammetteva compromessi e prendeva forma di rigore assoluto, con se stessa e con gli altri. Di fiducia, anche, per un sole a volte non visibile ma presente, per la fisicità assoluta della natura nelle forme più esplicite e più nascoste.
Così fece esperienza del vento nel muoversi mai uguale degli alberi, nel suo passare tra i rami, sul tetto, sul crinale dietro la casa dove a volte sfilava via, in salita, lasciandosi dietro un sibilo lungo. Ne capì la forza quando scoperchiò il fienile e sparse l’erba per gli animali sopra il ruscello e oltre. O quando, prima di scatenare una tormenta, cambiò improvvisamente direzione e ripulì il cielo.
Le regole della vita dipendevano dalle combinazioni semplici di caldo e di freddo, da mescolamenti e spostamenti d’aria: tutto accadeva di conseguenza, e con forme differenti, per una forza nascosta intuibile soltanto dagli effetti. Gli abitanti c’erano abituati, e prevedevano gli eventi naturali, traendone più vantaggio che danno. Però c’era un limite dentro ogni cosa, accettato da tutti non per fatalismo ma per adesione spontanea alla realtà. Nei libri che lei avrebbe studiato tutto questo non c’era.
Adolescente fu mandata a scuola più a valle, dove le case si infittivano e il ruscello s’allargava. Il primo viaggio fu un’avventura, scoprì cosa significava muoversi verso qualcosa che non si conosce. Stavolta non era lei a misurare col passo lo scorrere del tempo e dello spazio. Trasportata da un piccolo autobus, vedeva fuggire il paesaggio a una velocità che impediva alle immagini di fissarsi. I suoi occhi coglievano soltanto un mescolìo di colori, e una strana luminosità forse frutto dell’emozione.
Per tutto il tragitto rimase con la fronte appoggiata al finestrino, attenta ai sobbalzi sempre più rari mano a mano che lo sterrato si faceva più regolare e diventava selciato preciso, curato. Sul sedile imbottito, più morbido del legno a cui era abituata, si sentiva cullata e sola nello stesso tempo. Quel viaggio non era una sua scelta, un po’ la faceva soffrire e un po’ la spaventava. Il non esserne responsabile, però, le dava la forza che c’è nell’obbedienza ingenua, totale e senza domande.
Guardò appena gli altri viaggiatori, alcuni adulti qua e là e due ragazzini seduti vicini, rilassati e distratti, come chi è abituato. Si sentì più tranquilla, col tempo si sarebbe abituata anche lei. Tornò con lo sguardo all’esterno, attenta a non perdersi nulla. Vide un salto del ruscello e poi un bacino dove l’acqua si distendeva. Da lì usciva una striscia di fiume, contenuta da un argine regolare e da un sentiero alberato. Alla fine degli alberi, su un cartello lesse il nome del paese, poi le apparve un gruppo di case raccolte intorno a una piazza. L’autobus si arrestò proprio lì e rimase immobile, con il motore spento.
Ecco il capolinea, pensò, ricordando le indicazioni dei genitori. Dove vivevano non c’era capolinea, l’autobus faceva una sosta breve alla fine della strada, poi riprendeva il cammino nella direzione opposta.
Scesa si guardò intorno e si stupì: quello era un vero paese, con piazza, vie e negozi. Ovunque voci, rumori, movimento: gente andava e veniva, si alzavano saracinesche, auto si allontanavano. Dal centro si diramavano alcune vie ordinate, con case in fila e qualche passante. Chissà dove arrivavano, fin dove si spingeva il paese… Immaginò altre zone abitate, poi case sparse sempre più lontane. Tornò a osservare la piazza, la scuola le era di fronte. Con la facciata rosso mattone e le persiane verdi incombeva come una necessità. Si consegnò a quel luogo con la disciplina che i suoi mettevano nella vita quotidiana, ma niente era uguale alla scuola di montagna: bassa, di pietra, nascosta tra i cespugli. Lì c’era il latte delle mucche che chiamava per nome, il pane cotto nel forno di tutti, il ghiaccio incastrato sotto le finestre. C’erano il legno vecchio da usare per il fuoco e i funghi da riconoscere, buoni o cattivi. E c’erano bambini come lei, timidi e tenaci, con gambe forti da salita. Quella era scuola di vita e di sogno, che lei non conciliava per difetto di sintesi.
Andava e veniva ogni giorno, e tornando trovava la terra sempre più impervia e i monti troppo vicini. Questo la confondeva, era bastato allontanarsi per perdere il filo che teneva uniti origine e luoghi. Ora desiderava superare il limite della sua casa e il confine più ampio di rocce e alberi per andare nella direzione opposta, sempre più voluta.
Intanto la geometria le entrava nella mente con la partizione dello spazio visibile. Fu una grande scoperta, fatta scomponendo il paese in figure. Partiva dai lati – le strade – per arrivare a quadrati, rettangoli e trapezi. Erano differenti da quelli del libro di scuola, fissi in una perfezione astratta, e li preferiva. Preferiva le forme reali della vita.
All’uscita da scuola ogni volta scopriva nuove figure, avvicinandosi al confine opposto del paese, dove l’autobus non arrivava. Un giorno vi giunse, finalmente, e con quel tassello che mancava il disegno si completò.
Nacque così il desiderio di conoscere spazi più grandi, e l’impazienza di terminare la scuola. Cercò allora di consolarsi scomponendo la classe in persone e oggetti. C’erano scarpe consumate e scarpe troppo grandi, forse di fratelli maggiori. C’erano anche scarpe nuove, della giusta misura. C’erano quaderni dalla copertina nera, poco curati, cuciti in mezzo con il filo e pieni di macchie. E anche quaderni colorati, di carta bianchissima, tenuti insieme da una colla invisibile.
Dagli oggetti risalì ai compagni, e provò simpatia per quelli con le scarpe peggiori e i quaderni più sporchi. Poi studiò voti e giudizi, sempre proporzionali alla qualità di scarpe e quaderni. Intuì che la storia cominciava lì, tra cattedra e banchi, nella combinazione inversa di capacità e giudizi, in una lista di privilegi pronta per il futuro. E smise di studiarla.
L’ultimo giorno di scuola uscì col giudizio finale infilato proprio nel libro di storia: c’era scritto di un neo che spiccava sul buon risultato generale. Si voltò a guardare la facciata rosso mattone e sorrise pensando: mai più. Le era nata dentro una nuova radice.
In autobus verso casa le tornò agli occhi il solito tragitto di curve e sbalzi, scandito prima dai cartelli stradali, poi dalle pietre miliari e infine dalla natura che si riprendeva tutto, obbligando alle sue leggi d’acqua e di roccia, così vere, così da sempre.
Sul sedile davanti al suo erano seduti i due ragazzini di cinque anni prima, cresciuti. Anche lei era cresciuta, ma senza accorgersene. Il tempo era trascorso in fretta, e non li avrebbe più incontrati. A volte, in quegli anni, le avevano sorriso, a volte le avevano rivolto la parola. Ma lei parlava appena, per educazione, perché gli altri erano lontani dalla sua mente al lavoro.
Alcuni sedili erano occupati da un gruppetto di donne, in fondo sedeva un anziano silenzioso. Gli operai che incontrava all’andata non c’erano, loro tornavano soltanto di sera. Si accorse di stare dalla parte del finestrino, col posto accanto vuoto. Come la prima volta, come sempre. Pensava troppo, gli altri lo sapevano, forse per questo non si avvicinavano. L’eccesso: prima l’aveva osservato in natura, come fosse un destino. Poi le era scivolato dentro, e vi era rimasto.
L’estate era solo all’inizio. Lei riprese la vita di sempre, con i lavori di casa, gli animali, il fieno. Rivide la scuola di montagna tra i cespugli spontanei, vuota. I bambini sarebbero tornati in autunno. Rifece i sentieri che conosceva, ripassò le specie degli alberi che cambiavano con l’altitudine.
Un giorno andò oltre e salì fino al passo. Da lì si scopriva tutta la valle, coi tetti minuscoli nel verde. Le cime intorno erano più vicine, e le entrò nei polmoni un’aria differente, più sottile. Si sentì leggera e piena di una gioia imprevista, come chi, dopo tanto lavoro, si sveglia da un sonno profondo e si accorge che è festa. Un momento così sarebbe rimasto unico nei suoi ricordi.
In basso la vita scorreva seguendo il ciclo del sole. Le giornate più lunghe dilatavano il tempo, e l’aria si caricava di luci differenti a ogni ora del giorno. Lei ne osservava ogni sfumatura e la riproduceva con polveri colorate mescolate con l’acqua. Ci metteva la stessa precisione di quando, da bambina, disegnava la neve a matita. Ripeteva la natura come allora, con tutta l’energia di cui era capace.
A fine estate una serie di temporali batté la zona per giorni e giorni. Il ruscello saltò via dal suo letto, un tratto di crinale smottò fino alle case, alcuni animali scapparono via. Le nuvole si stringevano tra loro fino a riempire il cielo e tutta l’elettricità dell’aria si concentrava in quella zona, scaricandovi fulmini a ripetizione e tuoni prolungati che si frangevano sui vetri. E se l’orizzonte si apriva, era solo per rovesciare scrosci d’acqua che la terra faticava a ricevere.
Si cercò di resistere dividendo tutto, anche il danno, secondo una disciplina ferrea che tra sé e l’altro non faceva distinzione. L’istinto di sopravvivenza alimentava un’uguaglianza forte quanto la rabbia della natura. Fu in quei giorni che le ritornarono in mente i compagni, le scarpe, i quaderni e i giudizi degli insegnanti: perché quelle differenze? Non sapeva rispondere, e ripensò alla storia che aveva abbandonato.
Il cielo si ripulì poco prima dell’autunno, ma il sole più lontano non compensava la freschezza dell’aria. Scaldava soltanto a metà giornata, eliminando tardi l’umidità della notte. La luce spariva dietro la casa nel primo pomeriggio e accorciava tutto, la giornata e la vista. Tranne le ombre degli alberi che, distendendosi, annunciavano il buio e il bisogno di fuoco.
Mentre la pienezza della natura si ritraeva pian piano, lei decise di andare all’università per studiare la storia. Dove viveva il treno non arrivava, bisognava camminare molto fino alla stazione. Da lì nasceva un solo binario, orientato in direzione opposta alle montagne, che attraversava tutta la valle e poi si diramava per toccare città sempre più grandi. Una volta l’avevano portata a vederlo, poche carrozze sempre piene di gente. Aveva sognato di salirci, per vedere paesaggi differenti e costruzioni fitte come foreste.
Vi salì davvero in pieno autunno, mentre scendeva una pioggia sottile che più in alto era neve. Salutò i genitori dal finestrino, con la mano e un sorriso rassicurante che conservò finchè non li vide rimpicciolire, fermi di spalle alla stazione, per poi sparire coperti da una curva ampia e definitiva.
Non si volse più indietro. Il treno corse tra valli e catene di monti, seguì la sponda di un lago immenso che poi diventò terra lavorata a perdita d’occhio. Piccoli specchi d’acqua, sparsi qua e là, riflettevano il cielo velato dalla nebbia. Poi macchie di cemento sempre più vicine sostituirono i campi diventando paesaggio, un unico paesaggio grigio. Quando distinse fabbriche e palazzi capì d’essere arrivata.
Il treno la lasciò sul ciglio d’un mondo differente. Uscita sul piazzale oltre i binari, la città intera le si mosse incontro e lei si lasciò prendere. L’aveva studiata a lungo sulla carta, memorizzando reticoli di strade, piazze e fermate d’autobus, ma vedendola si sentì confusa. Reagì subito cercando l’università e, poco lontano, la sua nuova stanza.
Una folla frenetica sciamava in strada fin dalle prime ore del mattino. Gruppi di studenti riempivano aule enormi e poi se ne andavano in fretta, disperdendosi. Lei stava in disparte e osservava, proiettando la sua identità nelle tante che le passavano accanto. La sera ritornava in se stessa, nella solitudine del suo spazio.
Presto mise da parte le figure geometriche con cui era cresciuta e riprese la storia. Fatti e interpretazioni le scivolarono dentro, in un archivio unito dal filo teso delle disuguaglianze. La conoscenza si fece parte della sua coscienza. Come in passato, però, i libri presto le diventarono inutili. Li lasciò in camera, accatastati in un angolo, e uscì.
Nei sobborghi e nelle fabbriche studiò l’ingiustizia, raccogliendo prove e testimonianze. Discriminazione, disoccupazione, sfruttamento: si costruì un nuovo vocabolario, con parole animate dai volti e dalle voci di chi le definiva con esempi di vita.
Alla natura aveva sostituito i bisogni di una parte d’umanità, che voleva perfetta come la neve della sua infanzia. Da quel momento, di lei, i suoi non seppero più nulla.
La arrestarono in primavera per attività sovversiva. Finì in una cella che la conteneva appena, con il soffitto basso e senza finestre. Una pedana di legno, appena sollevata da terra, sotto una coperta ruvida fingeva di essere un letto. Una luce gialla e uniforme, forte, restava continuamente accesa. Come una scossa continua le feriva gli occhi, e le attraversava il cervello insieme al rumore del nulla, acuto, subliminale.
La sua identità si scisse: una parte presente, stordita e insensibile, e un’altra più remota, ombra cosciente della prima. Corpo e mente si appoggiavano a caso sull’una o sull’altra, in una vertigine mista di realtà e allucinazione. Con un respiro a due ritmi, corto nell’ansia e lungo nell’abbandono, tentò più volte di consumare tutta l’aria per svenire in fretta e poi morire, ma l’ossigeno arrivava per canali invisibili e la manteneva in vita. Il tempo non c’era più, era fuori col mondo, con gli altri. Sospesa in un attimo infinito, si girò attorno per cercarlo. Non c’erano orologi e la luce fissa confondeva giorno e notte. Si attaccò al polso per misurare con i battiti la durata dei minuti. Provò a contarli, ma i battiti acceleravano. Si stese sul legno della pedana e si piegò su un fianco. Desiderava morire, in parte era morta.
I carcerieri la distrussero con lentezza per osservarne il cambiamento. Con una telecamera nascosta rilevarono ogni reazione. Senza farsi vedere, introducevano in cella un vassoio minuscolo con pillole di colori differenti e un liquido trasparente che sembrava acqua. Un biglietto diceva di inghiottire tutto. Lei obbediva, poi depositava in un altro vassoio la restituzione sempre più scarsa e inodore di ciò che il corpo non assorbiva. Era uno scambio inorganico, niente che somigliasse più a un ciclo vitale. Respiro e battito si fecero sempre più deboli, sonno e veglia si fusero in uno stato catatonico, rilevato da grafici sempre più piatti. Persa in una contemplazione fissa del nulla, sorda al vibrare acuto del silenzio e cieca alla luce continua, stava pietrificando.
Costruirono la scena finale impiccandola con un lenzuolo. Poi eseguirono l’autopsia e separarono dal corpo il cervello, che spedirono in laboratorio. Lo rovistarono per anni, inutilmente, alla ricerca di una radice patologica che motivasse la sua ribellione.
Quando seppellirono il resto nevicava appena.

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