L’altro mare di Angelopoulos

La morte di Theo Angelopoulos ha interrotto bruscamente la lavorazione del suo ultimo film L’altro mare, dedicato alla crisi greca. Una morte è sempre assurda, specie quando irrompe nel momento più intenso di una vita o di una creazione artistica, rendendola incompiuta.

Ora incombe, insieme agli interrogativi su come sarebbe stata, un cortocircuito di ricordi legati ai film passati: alcune inquadrature immote, pause e silenzi inconfondibili, un’umanità epica incisa nei personaggi e nella durata, presente e mitica. Tra sfondo e persona Angelopoulos muoveva la storia e l’utopia, quella stessa lasciata alla propria terra in tempo di esilio e poi ricercata al ritorno. Come un Ulisse qualsiasi, con volontà e smarrimento.

A me è tornata in mente l’Atene caotica della democrazia ritrovata, un mare di cemento ai piedi dell’Acropoli, gli ingorghi e il respiro grasso dei motori, un ragazzo in motorino che portava le bobine da un cinema all’altro. E poi le fughe verso il mare. Oppure Florina, appartata e poco appariscente: anche lì una morte improvvisa durante la lavorazione. Quella di Volonté, uomo dalle poche parole e dagli occhi schivi, spesso rivolti a terra come chi cerca qualcosa che ha perduto.

Angelopoulos era la forza dei silenzi e delle immagini, ma anche del pensiero che interpreta limiti e pericoli della storia recente. Come quella della sua Grecia in piena crisi economica, humus per l’ultimo film. Ne sono prova alcuni passaggi di un’intervista apparsa sul Manifesto lo scorso anno.

“Siamo arrivati, e non solo in Grecia ma in generale, a un periodo in cui sono le banche che decidono… Sto preparando un film che si chiamerà L’altro mare e che parla di questa situazione attraverso la storia di un piccolo gruppo di giovani attori che cercano di mettere in scena L’opera da tre soldi di Brecht insieme a dei lavoratori in sciopero e non riescono a farlo… I problemi sono arrivati da una sorta di esplosione del capitalismo in un universo che non crede più a niente perché i sogni, l’utopia socialista è crollata. Non c’è più prospettiva storica. Di fronte a questo orizzonte chiuso sono arrivati anni disperati. La strada è libera per il sistema capitalista senza limiti”.

Lui stesso chiedeva che tutto il popolo si pronunciasse sulla crisi attraverso un referendum, che nel frattempo è stato impedito. Ormai la gente perde il lavoro, i negozi chiudono, è un problema farsi curare, isole e patrimonio artistico sono in svendita. Parecchi stanno emigrando.

Il registra raccontava la disperazione della gente, degli artisti: “Non ci sono soldi per il cinema, per il teatro, le casse sono chiuse. Le sovvenzioni per l’arte, la cultura sono finite. La maggior parte delle persone che lavora nei teatri lavora senza essere pagata… Il Centro del cinema ha chiuso…”

E concludeva dicendo: “È difficile spiegare ai giovani, hanno difficoltà a comprendere. Per la mia generazione che ha creduto di poter cambiare il mondo è difficile vivere il presente. Abbiamo creduto di essere a cavallo sul tempo e poi constatiamo che l’utopia è finita… Gli economisti non sono così sensibili, gli artisti sono coscienti di quello che avviene, non hanno i mezzi per farlo, non se ne esce con sistemi economici. Forse c’è bisogno di qualcosa di nuovo”.

Ora resta la speranza di conoscere l’ultimo film così com’è, anche se incompiuto, per la coscienza intatta che lo ha ispirato e per la capacità di sguardo di chi, attraversato un mare, già forse riusciva a intravederne un altro.

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