Quasi senza parole: racconto

Era vissuto sempre nella capitale, in un grande casa lungo un viale alberato del centro. Vi crescevano tigli, pioppi e platani, alcuni dentro aiole rotonde disegnate da pietre irregolari e altri in rettangoli di terra calati direttamente nel selciato. Lì la terra era grigia, non come quella dei campi che dopo il disgelo si accendeva di una sfumatura calda, quasi rossa durante l’estate. In città nemmeno l’estate correggeva il grigio, confuso tra macchie di verde distese ordinatamente ai piedi degli alberi.
La sua famiglia si era distribuita a ondate successive prima nei paesi confinanti e poi sempre più lontano, rispondendo alle persecuzioni con un piano di fuga proporzionato e preciso. C’erano piccole colonie di profughi sparse per il mondo, pronte ad accogliere altri fratelli in nome di una religione atavica e superiore che mescolava ori di famiglia e giustizia divina.
Lui era rimasto, il loro dio non l’aveva nemmeno sfiorato e il sangue che gli scorreva dentro era quello di chi nasce e muore senza un’origine. La sua mente leggeva l’universo come un accidente perfetto in continua dissoluzione e ricomposizione, sempre in pareggio. A volte sperava in uno scarto che portasse novità, in più o in meno: una rigenerazione completa delle specie o una fine totale, risolutiva. S’interrogava sui limiti della materia e dei sentimenti, della quiete e del moto, dell’identità e dei cambiamenti. Credeva da sempre nella complessità, che attraversava tutto, i formicai luminosi delle stelle come ogni minimo tentativo d’amore. L’infinito, nelle cose e negli uomini, per lui era solo un’apparenza.
Questo lo separò dalla sua famiglia, e da una famiglia più grande di esistenze elette, unite in nome di un nome supremo, che pareva un lamento e insieme un grido di vendetta. Sua madre lo rimproverava, dicendo che il tarlo della scienza lo aveva reso sordo persino alla voce di dio. Lui le rispondeva sorridendo, rinunciando a spiegare.
La vita che aveva gli dava più di quanto servisse, e non c’era altro da capire. Era un uomo libero, di una libertà ignorante e dignitosa, sensibile alla musica, alla poesia e anche alla scienza, specie quando si legavano tra loro come polveri alchemiche.
Non soffrì del primo ostracismo, che valse per chi si allontanò ma non per lui, che rimase da solo nella casa dove era nato per continuità naturale. Non soffrì nemmeno del secondo, lanciato contro chi, come lui, si era rifiutato di entrare nella casta dei governativi. Anche questa fu una scelta spontanea, quasi fisica, un respiro profondo che gli liberò i polmoni e poi la testa. Per forza, pensò, il suo era sangue di chi nasce e muore senza un’origine, di chi vuole il bene degli altri subito e non chissà quando.
Pagò la fuga dei suoi familiari e anche la sua serena incomunicabilità. Lo accusarono di essere ebreo e comunista, ma lui non si sentiva ebreo. E se anche si comportava come un comunista non diceva di esserlo, un po’ per pudore, un po’ perché credeva solo nella complessità.
Per gli stessi motivi non si definiva scrittore. Del resto, scriveva per pura necessità fisica, per urgenza di trasformare materia. Quello che il suo corpo assorbiva cercava una via d’uscita altrettanto vitale, un’energia concreta che produceva parole, allusive a volte, a volte più esplicite. E la realtà vi era tutta intera, diretta e riconoscibile.
Niente gli fece paura, nemmeno le notizie di prigioni, di torture e di morte riferite sempre più spesso da chi gli era vicino e sperava che fuggisse. La sua serena incomunicabilità lo fece continuare a vivere esattamente come prima.
Passeggiando sotto gli alberi del viale con la calma di chi ha tempo, osservava la vita distribuirsi in variazioni sempre nuove, di foglie e di voli. Alcuni uccelli c’erano da anni, li riconosceva dal canto, altri andavano e venivano. Somigliavano agli uomini, che percorrevano il viale per abitudine o per caso. Quando i rumori coprivano la città e anche il respiro degli alberi, lui si ritirava in casa.
Nelle prime ore del mattino, quando soltanto gli uccelli tornavano a muoversi nel silenzio, apriva le finestre che si affacciavano sul viale. In quei momenti l’aria fresca sul viso e l’oscillazione lenta dei rami gli ricordavano l’importanza di essere lì, in quel frammento di terra, fermo e sicuro nonostante tutto.
Quando lo misero sotto controllo stava scrivendo un racconto. Passò mesi di prigionia inconsapevole, di giornate uguali trascorse tra il viale e la casa, tra le finestre e la sua scrivania. Non voleva sapere, non gli interessava cosa facessero lungo le scale o dentro il portone, all’angolo tra il viale e la piazza, sulle panchine attorno. Se qualcuno gli riferiva che c’erano, lui rispondeva di non badare alle apparenze, perché niente avrebbe tolto respiro agli alberi e movimento agli uccelli.
Un po’ prima dell’alba sfondarono la porta. Le finestre sul viale, ancora chiuse, nascosero ogni rumore. Lo trascinarono fuori a dispetto dell’abitudine, mai era uscito di casa così presto. Vide muoversi appena qualche ramo ma non sentì nulla, nemmeno l’aria fresca sul viso.
La complessità a cui credeva, più grande e nobile di quel che stava accadendo, si mescolò a un’incredulità contingente, e a una risposta fisica tutta sua, fatta di occhi stupiti che si perdevano oltre, di un corpo rimasto a casa. E di un silenzio irreale, che coprì tutti gli interrogatori. Lui non c’era, dunque non poteva rispondere.
In quel periodo molti furono mandati in isolamento o ai lavori pesanti. Ai più fortunati toccò il confino in villaggi di sassi e polvere, dove i pochi abitanti guardavano in basso e serravano il dialetto tra i denti per non farsi capire. Per lui scelsero un’isola: un privilegio non richiesto, un’umiliazione esclusiva. Gliene descrissero la bellezza e l’ospitalità con la cura di un’offerta turistica, intanto si scambiavano occhiate d’intesa e mezzi sorrisi d’ironia.
Nel riservargli quel trattamento distillarono la ferocia fino allo stato essenziale d’intenzione. Sospesa sulla sua persona fin dal primo momento, si alimentava di infinite possibilità, di un potere illimitato tutto nelle loro mani. Mai, però, sentì addosso quelle mani e quegli uomini, che per lui erano solo apparenze, immagini sghembe, come brevi allucinazioni. Si dissolvevano tutte prima di scendergli nella coscienza, le vedeva e insieme le perdeva nel giro di pochi istanti.
La barca su cui lo caricarono si allontanò dalla costa navigando diritta poi, con uno scatto improvviso, compì un breve spostamento a sinistra e così si mantenne, puntando verso un angolo di mare sempre più ampio. L’isola non si vedeva, c’erano soltanto onde da tagliare per allontanarsi sempre di più. All’improvviso apparvero alcune schegge di scoglio, come di un meteorite enorme scoppiato in cielo e precipitato a pezzi in un mare poco profondo. Il pezzo più grande, l’unico abitato, era l’isola. Il resto giaceva sull’acqua abbandonato, immobile. Dissero che gli scogli avevano punte taglienti come lame, nascoste, se qualche barca vi girava attorno non doveva avvicinarsi troppo.
Quando fu a terra ebbe un vuoto più forte di quello che aveva provato in mare. Gli sarebbe rimasto, era lo spazio di ciò che mancava. Con loro nemmeno una parola, li vide prendere la rotta del ritorno e poi sparire dietro un muro d’acqua. Credette di non averli mai conosciuti.
Passava le sue giornate a guardare dall’isola nel mare, sopra e intorno. L’acqua si distendeva e si assottigliava fino a sparire nel punto in cui la terra la toccava. Diventava spiaggia dove l’onda non arrivava, consumata prima da infinite frantumazioni, da slanci e riassorbimenti. Nella corona tra la terra e una profondità improvvisa si fondevano trasparenze e sfumature di colore: sotto, una sabbia sottile si muoveva solo nel primo strato. Dalla superficie tutto era visibile, l’acqua e il fondo, con granelli di sabbia che rotolavano con lentezza. Si posavano e poi si spostavano in direzione costante, sospinti da una corrente appena accennata.
Di giorno osservava il mare, di sera si addormentava con gli occhi verso una terra che non vedeva. Gli abitanti lo chiamavano l’uomo che guarda, e quando lui guardava non si avvicinavano. Soltanto nelle pause, tra un punto d’osservazione e l’altro, gli rivolgevano qualche parola. Lui ricambiava appena, assorto in chissà quali pensieri.
Non scrisse più, si convinse di non averlo mai fatto. Si convinse anche di essere stato sempre lì, in quell’isola impossibile, quasi senza parole.

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