Quattro ore a Chatila

Trent’anni fa a Beirut, nei campi profughi palestinesi di Sabra e a Chatila circondati dall’esercito israeliano, falangisti libanesi armati di pistole, fucili, asce e coltelli compiono un massacro che non risparmia nemmeno i bambini. La mattanza dura tre giorni, dal 16 al 18 settembre. Il primo occidentale a entrare a Chatila è lo scrittore francese Jean Genet: sono le 10 del 19 settembre. Per quattro ore Genet sarà testimone diretto delle oscene conseguenze di una violenza senza limiti. Tornato a Parigi scriverà un reportage straordinario.

“I francesi hanno l’abitudine di usare questa scialba espressione: lavoro sporco; ebbene, come l’esercito israeliano ha ordinato il lavoro sporco ai Kataeb, o agli hassadisti, i laburisti lo hanno fatto portare a termine dal Likud, Begin, Sharon, Shamir…”.
Ho appena citato R., giornalista palestinese, ancora a Beirut domenica 19 settembre.
In mezzo a tutte le vittime torturate, la mia mente non può disfarsi di questa visione invisibile: come era il carnefice? Chi era? Lo vedo e non lo vedo. Mi acceca gli occhi, e non avrà mai altra forma che quella disegnata da pose, posture, gesti grotteschi dei cadaveri divorati, sotto il sole, da schiere di mosche”.
(Jean Genet, da Quattro ore a Chatila)

Un grande scrittore come Genet è stato capace di lasciarci in eredità anche questo: una prosa lucida e poeticamente forte, atto di denuncia di un eccidio impunito e delle sofferenze interminabili di un popolo.

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