Quell’ultima sedia

Carlo MazzacuratiLa sedia della felicità, film uscito a tre mesi dalla scomparsa del suo regista Carlo Mazzacurati, ha tre grandi pregi: è complesso e graffiante ma anche leggero e tenero; mescola toni e forme differenti (ironia e comicità, commedia e fiaba, realismo e immaginazione), portandoli tutti insieme a un equilibrio di contenuti e di stile; consegna allo spettatore un messaggio vitale e liberatorio.
La morte che corre dentro il film è improbabile e comica esattamente come la vita, e brulica di personaggi e situazioni spinti fino al paradosso, esilaranti anche nelle estreme unzioni e nei cimiteri, irridenti e dissacranti con i simboli e i luoghi della religione.
Eppure tutto è profondamente rispettoso e amorevole perché tutto è vita, anche quando esce prorompente dalle tonache e mostra le sue debolezze, i suoi cedimenti, le sue cadute verticali.
Tornano echi di altri film e dei luoghi d’origine (Padova e il Veneto), con cui il regista si confronta in un sottile gioco di intelligenza. La vena yiddish da lui stesso dichiarata è riduttiva: c’è un’interrogazione che attraversa con estrema vitalità tutto film e ne diventa parte in modo più composito e originale, più suo.
Sfilano molti temi cari al regista, anche sociali, attraverso persone semplici che per uno scarto di prospettiva si fanno simboliche, quasi magiche. Come gli animali (cinghiali, orsi) e gli attori, i paesaggi incontaminati e i luoghi di lavoro.
Sfila tutta una vita: tanto Veneto e qualche indizio di Toscana, gli amici, la paternità, l’amore. E poi un dono più intimo da lasciare a chi sa, nascosto nell’imbottitura di quell’ultima sedia che regge non soltanto la trama del film. Una felicità da cercare, fosse anche di un solo momento. Oppure infinita, oltre una linea di montagne alla fine del film: come un sorriso generoso e largo, per sé e per tutti. Come una specie di magico coraggio.

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