Di ribellione e di sogno

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Con Francesco Di Giacomo se n’è andata una grande voce e la memoria di cinquant’anni di musica italiana, di gruppi indimenticabili come il Banco del Mutuo Soccorso, gli Area, il Perigeo, tra rock progressivo, jazz e fusion, così vicini a volte da mescolarsi in un’unico, irripetibile linguaggio.
Ricordo il canto acustico di Di Giacomo in un minuscolo teatro di provincia: originale e potente come la sua rabbia buona, spinta negli acuti e poi modulata fino a spegnersi in un soffio, di ribellione e di sogno.

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In una saletta di Montecitorio

Matteo RenziUn certo Matteo Renzi, ennesimo Presidente del Consiglio non per volontà popolare ma per qualche contorsionismo di vertici in odore di tirannia, è un pollo d’allevamento nato e gonfiato nel laboratorio delle tv e dei giornali padronali, inoculato del virus democristiano prima, piddino poi e ora di altro virus di rampantismo generazionale, incrocio dei primi due con il berlusconismo, le banche, alcune lobby e qualche imprenditore di grande e sospetto successo. Se un soggetto così, finto e transgenico, si mette a fare consultazioni per costituire un governo (fuori da ogni logica parlamentare ma benedetto dalle peggiori istituzioni, malate e deviate come lui) il minimo da fare è stargli molto lontano, spiegando ai cittadini il tragico perché di questa distanza. Se invece si obbedisce come hanno fatto i Cinque Stelle, e si va ad incontrare questa specie di ventriloquo berlusconiano in una saletta di Montecitorio, non ci sono strategie comunicative che possano salvarti: né la visibilità mediatica di un portavoce né l’unilateralità e la durezza della sua comunicazione (meglio sarebbe stato, allora, leggere un comunicato di denuncia delle ultime, gravi manovre antidemocratiche, così come facevano i giornalisti quando ancora scioperavano) né la registrazione integrale dell’incontro. C’è poco da fare, per quanto differenti si rimane comunque incastrati nel gelo replicabile di un breve filmato che ricorda, per oscenità, qualche vecchia ripresa di sequestri in cui non si distingue il sequestratore dal sequestrato, il carnefice dalla vittima. Questo perchè la finzione attiva un vortice pazzesco, uno scollamento totale dalla realtà che risucchia tutto: persone, idee, sentimenti, coerenza. E parole, che perdono automaticamente di senso. Oppure si preferisce dimenticarle, quelle parole, perché diventano parte del teatrino entro cui sono state pronunciate. Eppure una frase continua a picchiarmi in testa, detta con enfasi e falso senso di responsabilità da quello scherzo della genetica partitica che è Renzi: “Questo è il luogo dove c’è il dolore vero delle persone”. Cosa? Una saletta di Montecitorio sarebbe il luogo del dolore delle persone? Cioè di chi soffre le conseguenze di errori,  furti, soprusi e violenze di un sistema di cui Renzi è stato ed è pienamente parte? Per caso Renzi ha scelto i suoi ministri e i suoi interlocutori tra i senza tetto e i senza lavoro, tra i licenziati e i malati che lo stato non cura, tra i parenti dei morti di galera, di immigrazione oppure di suicidio per via della crisi? Ma di cosa parla questa voragine vestita e truccata da studio televisivo? E come si permette?
Da oggi per molti, costretti dall’ingiustizia sociale a una condizione di privazione continua, di umiliazione, di odio cupo e senza sbocco, si aprirà una fase anche più difficile. E’ una destra aggressiva e vuota quella dei nuovi quarantenni, e avanza sulle spalle dei vecchi peggiori, senza quasi ricordi. E’ una destra spaccona, bugiarda e traditrice che ripete slogan senza senso nei salotti televisivi, dove finge una giovinezza che non ha e un’onestà che non ha mai avuto. E’ una destra che s’è mangiata tutto, anche gli ultimi resti di un’antica idea di uguaglianza abbandonata in qualche vecchia e vuota sede di partito.
Un’epoca si è conclusa e a sinistra è rimasto il vuoto: occorre convincersi di questo prima di rimettersi in marcia e di decidere chi sia veramente il nemico.

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Immensità umana

Trintignant e Riva“Amour” del regista Michael Haneke, oltre a essere un film, è un trattato multidisciplinare – psicologico, filosofico, etico – sulla dignità umana di fronte alla malattia e alle trasformazioni che produce in ogni dimensione del reale e in ogni relazione, familiare e affettiva. E’ un esempio di come la dignità possa essere trasmessa a chi la sta perdendo attraverso l’amore e la sua forza implacabile. E’ un manifesto sull’immensità umana, sulla dilatazione dei confini imposti da una condizione data, sulla possibilità di essere se stessi oltre ogni determinismo, contro ogni destino. E’ infine un esempio altissimo di realismo cinematografico, praticato con rigore estremo, complessità, raffinatezza estetica. Il linguaggio, fatto di interni ravvicinati e impietosi e di totali a volte giustapposti e quasi documentaristici, porta un’eco di Bergman, anche se da lontano e se coperta da un’oggettivazione perseguita con precisione meticolosa, chirurgica. Anche il sogno, il simbolo, il rispecchiamento, la proiezione (disseminati nella storia a conferma di quell’immensità umana che l’occhio del regista sprigiona attraverso i suoi protagonisti), si concretizzano in un campo visivo fortemente circoscritto e nitido, senza alcuna trasfigurazione o mediazione rappresentativa che ne evochi distanza oppure allontanamento. Tutto è vicino, tremendamente e umanamente vicino, così vicino al punto che lo spettatore stesso si trova trascinato dentro la realtà dello schermo, senza saper più distinguere tra la sua realtà e quella, e in quella gli episodi davvero vissuti da quelli immaginati o sognati. Fino alla fine, con un’uscita di scena di una bellezza straordinaria, che cancella in un attimo la memoria di ben altri finali cinematografici, così banali, furbi, ammiccanti (vedi, ad esempio, quello dell’ultimo film dei fratelli Coen).
Indescrivibile il virtuosismo mimetico della coppia di protagonisti, Emmanuelle Riva e soprattutto Jean-Louis Trintignant, calato sugli spettatori con una fisicità da palcoscenico teatrale e la ferinità lucida di un uomo in gabbia, che decide di uscirne tirandosi dietro anche chi non può. Un po’ come l’indiano del “Nido del cuculo” di Forman: uno scarto e poi lo scatto finale, in nome di una dignità umana che della libertà ha la stessa sostanza e le identiche ali.

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