Un solo occhiale e nemmeno un occhio

Lettere alla reinserzione culturale del disoccupatoUn solo occhiale e nemmeno un occhio, questo si osserva sulla copertina del libro di Andrea Inglese “Lettere alla reinserzione culturale del disoccupato”, uscito per Italic Pequod alcuni mesi fa, quasi ad anticiparne un contenuto riferibile a qualche deficit di lettura della realtà, a qualche limite nella sua osservazione. Oppure a quell’unico occhio della mente che invece si ritrova nei testi, puntato in profondità su un’esistenza che si esplicita come un mosaico sconnesso, rivendicando un contrasto sempre aperto con l’altro o l’altra o l’altra parte di sé, come con tutto il resto. E’ la mente che aspira la realtà raffreddandone ogni ganglio vitale, indurendo e assottigliando in un’invettiva asciutta e reiterata una rabbia che non riesce né a implodere né a esplodere, mantenendosi così motore primo di una serie di diciassette lettere scritte in versi a un’entità appena definibile. Eppure

basterebbe anche questo:
dare una data, attendere dei segnali,
un piccolo alfabeto morse, o qualcosa
di simile a sbandieramenti, come
con la testa china si guarda
in uno stagno, tra opacità trasparenze
luccichio di squame
allungarsi di nubi

o una vecchia discussione, urlata da un bagno,
la porta chiusa, la voce che ti arriva (p. 38-39)

Versi apparentemente discorsivi assumono la forma complessa di un monologo, duro e frantumato in mille rivoli, amo lanciato e rilanciato a chi non ascolta, pugno battuto contro un muro inerte. Forse è proprio in nome di quell’apparente discorsività che la poesia netta si perde, attenuandosi fino a sacrificare se stessa nelle quindici prose che seguono, riunite sotto il titolo comune “Le circostanze della frase”, dichiarativo di una contingenza a cui il fraseggiare stesso si sottomette qui, invece, fino ad esplodere in un sentimento rabbioso della realtà e nella sua rappresentazione stilistica:

il potere … è un lavoro totale, di ogni ora, di ogni sogno, bisogna saperlo rendere, nei suoi alveoli reconditi, strisciando, la bocca spalancata al suolo, scalciando chi segue, per averlo bene all’interno, nelle ghiandole, intero, che se ne faccia deposito, perché
quando verrà a mancare tutto il resto, e non ci sarà quasi più niente verso la fine, dentro chi lo ha fatto, nel suo midollo spinale, qualcosa resterà sempre, come una scoria d’uranio inconsumabile per miliardi di anni, quel potere tanto voluto, intatto, dopo e oltre chi lo ha cumulato, e che ora si consuma, l’illuso decrepito
(p. 54)

Ho scoperto Andrea Inglese per caso, leggendolo nell’antologia “Poeti degli anni zero: gli esordienti del primo decennio” curata da Vincenzo Ostuni. Degli altri antologizzati non conservo un buon ricordo. Giudizio troppo affrettato, forse, perché seguire gli esordienti nel tempo può riservare anche qualche sorpresa. Detto questo, soltanto il suo stile mi ha spinto a desiderarne una lettura più sistematica. Che prima o poi completerò, dopo questa incursione così breve ed estemporanea.

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La grande finzione

La grande bellezzaSono entrata a Cinecittà accompagnata da tecnici nei primi anni Ottanta, proprio quando Giuliano Montaldo stava spedendo all’estero le attrezzature per girare il suo “Marco Polo”. Fu una visita triste e attenta a qualche spoglia abbandonata del grande cinema italiano: scenografie, costumi e attrezzeria, qualche alchimia residua nei laboratori di sviluppo, vuoti teatri di posa. Quel giorno erano in lavorazione soltanto uno spot pubblicitario e un qualche progetto di Adele Cambria. Per il resto un grande silenzio, rotto dal rumore del nostro cammino sui ciottoli dei vialetti. Mentre cercavo di trattenere negli occhi almeno i costumi di Luchino Visconti, da dietro un angolo sbucò una sagoma enorme con cappotto e cappello. Uno scenografo disse “Buongiorno, dotto’!” e io riconobbi Federico Fellini, forse l’unico rimasto fedele a quel luogo. Erano i tempi di “E la nave va”.
Ora il film di Paolo Sorrentino “La grande bellezza” vince un Oscar e il regista nomina Fellini come uno dei suoi ispiratori. Dichiarazione rischiosa, perché non bastano alcuni simboli felliniani inseriti qua e là per reggere l’importanza del nome evocato. Anzi, le immagini finali della nave da crociera Costa Concordia, naufragata a un passo dalle case dell’Isola del Giglio, sono forse la rappresentazione più esplicita della rovina del nostro paese e della difficoltà di esprimerne la portata tragica in una forma artistica intellettualmente ed esteticamente all’altezza. Altra cosa il bastimento di Herzog in “Fitzcarraldo”, altra cosa il piroscafo felliniano…
Sorrentino ha realizzato un bel film ma non un capolavoro. La natura bifida della sua opera (in bilico tra realismo e visionarietà, tra vuoto tangibile e vuoto trasfigurato, tra denucia e sua sublimazione attraverso una grande finzione multimediale, con immagini di una bellezza algida e autosufficiente e musiche che scuotono) forse è l’aspetto più rischioso ma anche, paradossalmente, più riuscito, per un gioco di specchi e rifrazioni che crea complessità.
Resta però il dubbio che la capacità di lettura di quella complessità, e di una finitezza estenuata fino all’evaporazione, risieda in un altrove ben lontano dai mimetismi acritici e sempre più edulcorati. La vacuità feroce e scivolosa della vita romana è un soggetto difficile da trattare: possono il vuoto umano e la grande finzione che oggi lo alimenta essere denudati e denunciati per mezzo di un’altra finzione, in questo caso cinematografica? Forse occorrerebbe altrettanta ferocia, come quella delle ultime allegorie pasoliniane. Oppure un docufilm che mostri la realtà per quello che è, un po’ come è successo con tutta l’arte che sfila nel film, priva di parola e abbandonata dall’uomo come un animale indifeso (bellissima la scena della giraffa). In quell’arte solitaria e silenziosa sembrano essersi ritirati tutta l’umanità e il senso che mancano ai personaggi, insieme a quel passato di natura e cultura di cui abbiamo perduto le coordinate schiantandoci in un naufragio che continua.
Con la notte degli Oscar quel naufragio è finito in mondovisione, e non c’è bellezza che possa risarcirci.

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Le magnifiche sorti di Repubblica

La RepubblicaIl quotidiano Repubblica sta ormai gareggiando con i peggiori giornali di gossip, quelli con il macro obiettivo puntato con accanimento sui dettagli, positivi degli amici e negativi dei nemici. Metti un paio di chiappe cadenti sotto il sole da una parte e la lucida e sorridente eleganza di otto neo-ministre dall’altra e il gioco è fatto. Ma c’è di più, perché a questa strategia similgiornalistica di accompagnano anche: un sostegno sbracato e privo di elementi oggettivamente fondati a un fantoccio innalzato sul carro carnevalesco di un nuovo governo, anche per interesse diretto di chi paga il giornale (e qui non ci si riferisce ai lettori, che purtroppo ancora lo comprano, ma a chi possiede letteralmente la testata); una guerra senza quartiere a ogni opposizione che si muova al di fuori di questo scenario di soldi e interessi che dettano la linea; una semplificazione o ancor peggio una negazione spaventosa di ogni visione della realtà un po’ più complessa della secca contrapposizione tra icone (Renzi-Grillo, ad esempio, ma il meccanismo potrebbe valere per chiunque sia dotato di propria visibilità ma non sia allineato al Repubblica-pensiero); e infine il pericoloso mimetismo con cui la cifra tipica di certi giornaletti che si sfogliano dal parrucchiere (almeno rispettabili per una coerenza esplicita tra copertina e contenuto) viene fatta propria e messa al servizio di un’immagine esteriore da ammiraglia del giornalismo italiano, rivolta a lettori che si presumono acculturati e nemmeno troppo reazionari. Specie negli ultimi tempi questa tendenza si è accentuata, secondo la modalità oscena per cui si prende l’osso nemico e lo si stringe tra i denti fino a stritolarlo, mentre si lecca quello amico e non certo per disinteresse. Vedasi l’accompagnamento di Renzi al soglio governativo come si trattasse di un cavallo di retrovia su cui puntare per fare il colpo gobbo (a proposito, ing. De Benedetti, a quando anche un investimento in scommesse on line come fa Rcs?) e la gestione davvero sconcertante delle notizie riguardanti la presentazione del nuovo governo: una sfilata, chissà perché, soprattutto di donne, in abiti e con accessori descritti nei più minuziosi dettagli, compresa l’altezza dei tacchi. Ma giorni prima c’erano state le auto guidate dall’ex premier e dal suo successore, sollevando interrogativi sul simbolismo profondo che distingue una Smart da una Lancia e concludendo che una Smart (naturalmente guidata da Renzi) è molto, molto meglio. Pubblicità occulta per la Smart o cos’altro?  Comunque il massimo si è raggiunto con i tre inconsapevoli figlioli di Renzi, vestiti, pensate un po’, di bianco rosso e verde come la bandiera italiana. Poveri loro e povera Repubblica, qui intesa come giornale ma anche come forma di un governo influenzato nel suo devastante svuotamento: di senso e di regole, sostituite con disinvolto compiacimento dall’apparenza di chi ci sbatte in faccia quel che può procurarsi non certo sulle bancarelle del “tutto a un euro” o alla Caritas. Questo è il rispetto che le élites, sempre più aggressive anche nel nostro paese, hanno per il “dolore vero delle persone” (cfr. Renzi) e per quella povertà di cui sono le prime responsabili. Complice un’informazione sempre più scadente e asservita, magari anche convinta di meritarsi il Pulitzer per aver elevato il gossip, con tanto di gallerie fotografiche e inserti multimediali, a chiave di lettura politica: dal grande schermo al tabloid è in atto una massificazione del vuoto senza precedenti, capolavoro pop di grande e incontrastato successo.

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