Su Ivano Ferrari

Ivano FerrariIvano Ferrari è un poeta che evoca la rarità come valore: della qualità dei versi e della loro differenza, delle uscite editoriali, dell’attenzione che lui stesso dedica ai suoi testi (a volte dimenticati chissà dove e poi riemersi, anche dopo decenni). Per Einaudi esce nel 1999 “La franca sostanza del degrado”, un dono di “luce d’esilio a nebbie e pietre” (p. 176). Questo verso bellissimo sintetizza la frequentazione di una materia debordante, spinta ben oltre ogni margine, oltre l’orizzonte di attesa dei lettori anche più randagi. Il libro colpisce per la forza che annuncia, anche se mostra intermittenze di intensità, impigliata a volte in qualche approssimazione. Lì accade che la realtà si riduca a un temporaneo monologo laterale, incidentale, pur pretendendo definitività. Si rivela cioè il non finito, nonostante la perentorietà quasi sentenziosa specie dei componimenti più brevi, spesso appoggiati a un unico punto finale che chiude con durezza ogni discorso. Cosicché ogni sezione risulta attraversata da una tensione quasi elettrica, tra poli differenti di poesie più o meno riuscite. Tra le prime (p. 172):
Oggi Dio è chiaro
parla semplicemente
e arriva con dolcezza
anche alle unghie
– c’è stato un volo, credo –
per addentare quell’osso di cielo
con reciproco azzurro.

E tra le seconde (p. 168):
Davanti a me
i tuoi occhi chiari
entrano nel naturale
mondo delle maschere.

La raccolta “Macello”, in parte anticipata nel 1995 nell’antologia “Nuovi poeti italiani 4”, esce sempre per Einaudi nel 2004. Lo scrittore Antonio Moresco, amico di Ferrari e autore di una bella recensione (uscita su “Pulp” e poi su “Nazione indiana”), ci dice che è stata scritta negli anni Settanta. Per inciso, fa sperare nel genere umano l’amicizia stretta tra due scrittori capaci di autentici capolavori: l’uno in prosa (“La lucina” ne è l’esempio più recente) e l’altro in poesia. E qui ci si riferisce proprio a “Macello”, opera perfetta, unitaria e coerente nel tema e nello stile. Ci si domanda infatti chi altri, almeno tra i poeti italiani delle ultime generazioni, sarebbe capace di un esito simile trattando una materia così letteralmente cruda come ciò che accade in un mattatoio, senza alcun trucco o trasfigurazione. Anzi, soprattutto descrivendo, e restituendo a un microcosmo marginale e sconosciuto a molti la centralità simbolica della vita stessa. Qui la condizione dell’esilio (da sé, dal mondo) viene illuminata dalla forza inedita di una poesia arcaica ed elaborata, materiale e filosofica, chiusa nella sua durezza eppure aperta a traslati allegorici di grande efficacia. Una raccolta straordinaria, chiusa da una poesia straordinaria (p. 88):
Su un oceano colorato malamente
galleggiava una piccola isola
le onde spargevano le origini
i coralli cicalavano al tramonto
e i pesci si rigeneravano alla fonte.
Era una goccia di sperma
cadutami nella vasca del sangue
in una mattina
di forte macellazione.

Dopo la parentesi di “Rosso epistassi” (Effigie 2008), Ferrari torna nel 2013 ad Einaudi con “La morte moglie”. Il titolo scelto per la raccolta è l’esplicita indicazione di contenuto della seconda delle due parti di cui si compone, mentre con la prima (“Le bestie imperfette”) l’autore ci offre la sorpresa di poesie appartenenti al periodo di “Macello”, a quest’ultimo affini anche per tema. Ed è proprio qui che di nuovo si palesa quella voce “dissonante e unica” (A. Moresco, in quarta di copertina), mossa dai margini e così rara ovunque, esito massimo della sua poesia.
Con decine di colpi
abbiamo frantumato l’ultima testa
si rispetta l’orario non la misura
come dentro la terra
il gelo chiude la questione.
(p. 22)
A p. 30 si descrive in diretta l’uccisione di un animale, a p. 32 si racconta del guarire degli animali per poi essere comunque ammazzati. E si procede così, quasi senza tirare il fiato, fino all’ultimo verso riferito a una farfalla: “… e lei via / verso altri modi di morire”. Un aggancio, forse, all’avvio della raccolta successiva: “Fai segni / oscillando le dita a graffio”, dall’animale all’umano senza differenza. Anche in questa seconda sezione, infatti, “si tratta di staccare ogni parola / dalla carne” (p. 54).
Se un’evoluzione nel tempo c’è stata, essa riguarda un uso più sofisticato del linguaggio, che solo raramente apre squarci nella nuda realtà, un tempo detti con la rozzezza unica delle parole più precise. Oppure con il sarcasmo, per tenere a bada ciò che in natura si dava come insopportabile.
C’è anche il mistero di una quartina ripetuta (che torna dopo trent’anni, da p. 3 a p. 58: “Gli occhi precipitano / anzi si perdono in alto / dove la voglia di vivere / copre il soffitto di ali”), forse a testimoniare, appunto, che tra dolore animale e umano non c’è differenza. Torna anche il vento, che “scompiglia i peli” (a p. 10 delle bestie, a p. 74 di una testa umana), personificato come un “animale”, che “guaisce e ringhia”. E poi lei, la moglie (p.64), che si abbraccia alla morte fin dal titolo, in un tutto di nulla fino al punto finale:
Sei tu la materia che mi converte
che sanguina docile negli occhi
si è spenta l’ombra
il corpo invece piroetta in aria
e come avessero una testa sola inseguono
due o tre fiori domenicali
eppure la paura non è niente di intero
la pace non contiene nulla.

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I volenterosi carnefici della democrazia

Laura BoldriniLa democrazia vera in Italia è morta da un pezzo. Sopravvivono gli ultimi brandelli, azzannati dai denti famelici di un manipolo di affaristi stretti da patti indicibili e travestiti da paladini dei poveri (che invece contribuiscono ad aumentare) e della Resistenza, da cantanti di “Bella ciao” nelle corride televisive di ultima generazione. Un Parlamento esautorato della funzione legislativa e un Governo del Presidente e delle lobby nazionali e internazionali ballano le loro danze davanti agli occhi sconcertati di un’opposizione privata delle sue prerogative, umiliata a colpi di eccezioni ai regolamenti dai cani da guardia di questo scempio.
A un decreto del Governo, che chissà mai perché (ma lo sappiamo, lo sappiamo bene) metteva insieme in un tandem odioso gli interessi popolari e quelli dell’alta finanza  (Imu e rica­pi­ta­liz­za­zione della Banca d’Italia), non si è potuta nemmeno esercitare un’opposizione necessaria e legittima, spinta fino all’ostruzionismo. Fatto inedito e grave nella storia della Repubblica, agito dalla Presidente della Camera Laura Boldrini con preoccupante disinvoltura.
Nel frattempo due condannati, uno con sentenza definitiva e l’altro in primo grado (ma potrà sempre migliorare), entrambi capi di partito, stringono al di fuori delle sedi previste dalla democrazia parlamentare un patto indecente su una legge elet­to­rale altrettanto indecente: enorme pre­mio di mag­gio­ranza, sbar­ra­mento per gli altri par­titi, e ancora una volta (udite udite) l’impossibilità di esprimere preferenze, così da garantire la conservazione delle attuali nomenclature. Si tratta anche e soprattutto di un patto per tagliare fuori non tanto i piccoli partiti (sempre pronti a coalizzarsi con i grandi in vista di poltrone e premi elettorali, per poi rinunciare a ogni minima autonomia di pensiero in quanto in debito di riconoscenza verso chi li ha traghettati), quanto il grande gruppo politico dei Cinque stelle, oggi unica vera opposizione in Parlamento e nel paese.
E ancora una volta strade e piazze dovrebbero essere piene di cittadini che protestano, mentre gli unici che provano ad opporsi finiscono travolti dai diktat di un mostro costituito dalle sigle partitiche più improbabili (Pd, Fi, e avanti c’è posto), in un consociativismo di sistema che annienta ogni differenza e non prevede alcuna vera opposizione.
Così almeno era in Italia fino a poco fa, cioè fino a quando non si è miracolosamente materializzato un nuovo soggetto politico, che altrettanto miracolosamente vorrebbe esercitare le sue funzioni di controllo, di critica e di proposta, per le quali una parte consistente degli italiani l’ha votato. E’ questo ora il vero fastidio, l’imprevisto non calcolato, l’incognita da stroncare con ogni mezzo, grancassa mediatica compresa.
Così appare anche più chiaro perché nessuno, giornalista o politico, ci spieghi con chiarezza: cosa stia succedendo davvero in questi giorni, in Parlamento e fuori, nelle segrete stanze degli accordi; cosa sia questa “tagliola” o “ghigliottina” abbassata sulle teste di un’opposizione più che legittima (senza premi di maggioranza, per intenderci: un uomo, un voto) da una Presidente della Camera eterodiretta; quale ennesimo regalo i politici ci hanno costretto a fare alle “loro” banche (a partire da Unicredit e Intesa, tanto per renderci conto del chi e del come). Hanno di nuovo stretto la corda dei sacrifici intorno al nostro collo (e non certo al loro), prendendoci in giro con il contentino/spauracchio dell’Imu, sbattuto in faccia all’opposizione per stringerla all’angolo, e ancora una volta per umiliarla.
Certo, poi l’opposizione si agita, occupa banchi e commissioni, sale sui tetti; denuncia come può le più alte cariche dello Stato, pur sapendo che un intero sistema, tenuto insieme dal forte collante degli interessi, le difenderà fino alla fine.
E allora ci si dovrebbe domandare cosa possa fare un’opposizione per non essere tirata dentro il cerchio dalle reazioni a caldo, e per non finire così, suo malgrado, sulla vecchia scia maleodorante di chi invece andrebbe combattuto con mezzi nuovi e differenti.
E ci si dovrebbe anche domandare quanto sia difficile salvare il proprio equilibrio, e insieme la propria integrità umana e politica, in un sistema parlamentare continuamente violato, deviato, oliato dagli affari, con pochi che decidono altrove, mentre tanti volenterosi carnefici si muovono ogni giorno obbedienti, nel palazzo e nella vita di tutti i giorni. Alcuni di questi hanno anche la faccia tosta di cantare in Parlamento “Bella ciao”, dando dei fascisti a chi invece cerca di difendere come può una democrazia sfinita. Dimenticando, i primi, quale fosse la democrazia voluta dalla Resistenza e chi l’abbia, colpo dopo colpo, ridotta allo straccio che è.

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Nella mischia degli ultimi

L'estate di DavideScelgo per ricordare Carlo Mazzacurati, scomparso ieri, un suo film del 1998 di cui poco si parla: L’estate di Davide.
Per me fu una scoperta, dovuta al cosceneggiatore Claudio Piersanti e a un’anteprima romana.
Il film racconta la storia breve e intensa di un’estate e del suo protagonista, un giovane trasognato e vero come il paesaggio che l’accoglie, un Polesine appartato e mitico immerso in una musicalità lenta. Alla campagna ci si avvicina e dalla campagna si parte per crescere, per scoprire la vita attraverso personaggi e vicende oltre i margini.
Una misura poetica necessaria accompagna le immagini, senza una sbavatura o un dettaglio di troppo. E la sufficienza si fa perfezione, senza niente di più, nel descrivere una realtà precisa e naturale: nessun conflitto con la sua rappresentazione, nessuno scarto tra contenuto e stile, tra carne viva e sogno.
Un po’ come lui, Mazzacurati, come mi apparve quando mi fu presentato: un uomo grande, incombente, con un sorriso chiaro che superava ogni differenza. Un rugbista gentile, nella mischia degli ultimi accarezzandone il fango.

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