Stanza numero uno

Ballano e cadono gli uomini di Mosca
la realtà scatta e poi soccombe
ora si pone una domanda
sul destino dei corpi:
avrà un senso quel moto
spinto alle giunture
quell’alzarsi delle braccia in aria
elettriche, come di rana
in un esperimento?

ciascuno cede in un punto assegnato
è un abbattersi a terra dopo un passo doppio
trattenuto nel sangue
buona la scena per un palco soltanto
buona la morte plastica del cigno
che accartoccia le ali
forse il poeta cercava verità
in un grumo di vene
e il resto via, dio l’uomo e il vuoto
dentro un solo pensiero

ora schiarisce dalla quinta alla strada
una luce di luna che raccogli
lentamente dall’acqua
il mare è ovunque sopra i ciottoli bianchi
se sollevi lo sguardo un’incisione più netta
ti sorride dal buio, sembra un ventre
accennato che si stacca

stessa del diciassette quella luna,
altra rivoluzione…   (1996)

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Versi insaturi

Scrivo versi da sempre, in una specie di esercizio partito da poesie brevi, simboliche, dal ritmo appoggiato su suoni secchi e ripetuti e dalle metafore necessarie. Poi il verso si è gradatamente allungato e addolcito, fino a perdersi quasi nella prosa. Questa parabola ha toccato il suo culmine negli anni Novanta, quando ha preso vita un lungo racconto dalle forme ancora poetiche. Avrei incontrato la prosa subito dopo, inaugurando una scrittura dai binari distinti, prosa e poesia, che si è mantenuta fino ad oggi.

Tornando a quei versi degli anni Novanta, oggi li definirei insaturi, per la loro diluizione imperfetta nella prosa. Benedetta quell’imperfezione, perché ha permesso alla mia voce poetica di sopravvivere a un forte bisogno narrativo altrimenti inconciliabile. E poi di riprendersi la sua autonomia, per quel parallelismo che ancora pratico scrivendo alternativamente in poesia e in prosa (narrativa, saggistica o mista, come in questo blog).
Sono proprio quei versi insaturi che mi hanno fatto tornare, oppure arrivare, a forme più dense e strette.

Non so se la mia scrittura ha un andamento circolare o lineare, se la poesia di oggi sia un’evoluzione di ciò che l’ha preceduta o se si tratti davvero di un nuovo inizio. So però che devo riconoscenza a quei versi spuri, anche perché mi hanno fatto portare dentro la poesia un mondo che andava in frantumi, mediato dalla resistenza del filtro culturale.

Allora si stava consumando in diretta il suicidio del Novecento. E dei suoi ideali, spazzati via in Italia dal vuoto del decennio precedente, il  cosiddetto riflusso (termine orribile con cui si definiva la fine dell’impegno degli anni Sessanta e Settanta, distrutto dal delirio terrorista e dalla repressione di stato), poi riempito dalla telenovela berlusconiana.
Esattamente in quel passaggio ho cominciato a esprimermi in modo differente, insaturo come la vita che osservavo e vivevo. Ne scompongo oggi il risultato in sezioni dalla struttura irregolare, chiamate stanze per indicare spazi provvisori nei quali la realtà ha cercato rifugio. E compensazione, in uno stile impossibile come tutto il resto. Ciascuna stanza ha un numero progressivo che indica fedelmente la successione dei fatti narrati.

Non so se tutte le stanze usciranno nel blog né se vi metterò mano per avvicinarle di più allo stile di oggi. So però che gli scenari che le hanno generate sono quelli da cui sono derivati quelli attuali, ancora peggiori per le conseguenze di giorno in giorno sempre più estreme. Soprattutto per questo ho deciso di aprire il cassetto, liberando la voce che avevo vent’anni fa, alla ricerca di quel riscatto che un paese condannato a ripetersi ancora oggi ci nega.

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Mentre muore Tabucchi

In Italia stanno saltando anche le ultime tutele dallo strapotere di pochi arroganti, supponenti e colpevolmente dissociati dai cittadini, che avrebbero invece il dovere di rappresentare. Nel difendere a ogni costo un sistema neoliberista pienamente fallito, ricorrendo a meccanismi autocorrettivi che non ha, seguono una strategia debole e incapace di rinnovamento che condurrà all’implosione.

Sarebbe più semplice dire “fate pure, tanto andrete a schiantarvi” e poi aspettare lo schianto, per raccogliere i cocci e ricostruire. Ma si sa che la storia non va sempre così, e che il prezzo da pagare si inciderà nella carne e nella vita di molti. Inoltre, chi sopravviverà avrà forza e mezzi per rigenerare un paese stremato? Apocalisse e fantascienza tingono dei colori più incerti una realtà già così lacera e allucinata.

Mentre Antonio Tabucchi, scrittore di grande chiarezza di giudizio (così straniera nell’Italia delle tante ambiguità convenienti), muore (all’estero, naturalmente), qui assistiamo al duetto sconcertante di un Presidente del Consiglio che offre il dono del licenziamento “erga omnes” ai poteri che lui rappresenta e di un Presidente della Repubblica che esce pericolosamente dalle sue prerogative per sostenerne il disegno e condizionare, dall’alto della sua carica, tutto il paese: la politica, i sindacati, i cittadini stessi.

Immaginate cosa significherebbe libertà di licenziare (perché al di là della formale motivazione economica di questo sostanzialmente si tratterebbe) nel delicato settore dell’informazione, già così asservito a gruppi interessati al condizionamento delle opinioni, e in quello pubblico, già così influenzato dal sistema dei partiti di cui è emanazione. Confezionare una motivazione economica per allontanare un giornalista non imbavagliato o un dipendente non raccomandato sarà un gioco da ragazzi, come lo sarà per un operaio sindacalizzato o più semplicemente meno disposto a fare turni insostenibili o a chiudere gli occhi sulla sicurezza non garantita.

Dire che l’art. 18 è soltanto un simbolo e che di altro bisognerebbe preoccuparsi (ad esempio della disoccupazione, come se con la libertà di licenziare possano davvero aumentare i posti di lavoro), significa nascondere dietro una mistificazione l’obiettivo vero di un’operazione da portare a termine a tutti i costi: cancellare l’ultimo pezzetto di dignità e tutela che ci era rimasto, perché il ricatto del lavoro diventi uno strumento di controllo ancora più micidiale, e perché la libertà di investire e disinvestire diventi ancora più selvaggia, senza alcun limite o regolazione. Un premio all’imprenditoria e a manager “mordi e fuggi”, cioè ai peggiori, e una garanzia di assoggettamento alla deriva antidemocratica, a sua volta al servizio di una feroce ristrutturazione economico-finanziaria.

Diceva Tabucchi: “La democrazia odierna mostra evidenti ed allarmanti scricchiolii. Ma avete mai sentito la sinistra italiana che si sia messa a ridiscutere seriamente la democrazia? Intendo i concetti portanti della democrazia, ciò che ne è o dovrebbe essere l’essenza: i diritti dei cittadini, le libertà, la distribuzione del potere, la distribuzione dei beni materiali, il diritto al lavoro, il controllo sui singoli e sulle masse…”. Indicava una strada, riferendosi però a una sinistra italiana che non c’è. Chi infatti ne ha detenuto e insieme contrastato il marchio in un’osmosi perfetta è riuscito a distruggerla.

Questo ci insegna che, al di là dei nomi, contano i valori che sanno tradursi in esperienze quotidiane e capillari. I movimenti per l’acqua pubblica e quelli per la difesa dei territori, i tentativi di affrontare crisi e debito in modo nuovo e partecipato, quelli per la difesa del lavoro e della scuola pubblica, dell’ambiente e della salute, della pace e della legalità dovunque, dalle prime linee contro le criminalità associate fino alle opacità dei contesti a noi quotidiani, sono la sinistra italiana? Gli esempi negativi che evoca questa definizione farebbero rispondere di no.

Il punto però è un altro: se ci sarà rinascita in questo paese sarà a partire da queste esperienze, e non certo dai palazzi e dai partiti tradizionali, qualunque nome si diano. Soltanto nella distanza tra paese reale e istituzioni può farsi spazio il cambiamento, incontrando purtroppo ogni tipo di ostacolo, compreso quello dei licenziamenti. Occorre forza e lucidità per resistere, difendendo se non il nome (di quanti nomi ci hanno privato finora?) almeno l’idea di ciò che ci tolgono. Perché è dalla memoria che dipende il futuro, Tabucchi lo sapeva bene.

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