Terramare

Uguali i marmi dei governi del nord
e del sud
stessa rigida forma della storia
se conserva pareti
la guida rossa tra atri e saloni
trasuda polvere e sfilate potenti,
di palazzo e di chiesa

fuori il vapore acido
consuma facciate
schegge di sole al neon
colpiscono i vetri

dalla pineta il vento s’impenna
poi vira oltre, su mari differenti

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Come non muore un sogno

Che sia un romanzo breve o un racconto lungo, un testo teatrale o una sceneggiatura cinematografica, oppure più probabilmente tutte queste cose insieme, Uomini e topi di Steinbeck è una lettura robusta, per l’intensità degli eventi, e nello stesso tempo strana e inafferrabile, per il riferimento a condizioni umane dure e marginali che dal naturalismo scivolano verso l’incapacità di essere nella realtà e verso un sogno irrealizzabile.

Varia critica ne ha evidenziato alcuni limiti strutturali, ad esempio il tempo corto che non permette ai personaggi maggiori di evolversi e a quelli secondari di superare la tipizzazione, più funzionale alla scena che al respiro del testo letterario. Viene però il dubbio che nel tempo abbia lavorato il pregiudizio di uno Steinbeck minore rispetto ai mostri sacri della letteratura americana a lui contemporanei, primo fra tutti Hemingway, cosicché la forma stessa dell’opera, difficilmente definibile secondo le categorie tradizionali, sia diventata motivo di poca comprensione e assimilazione. Come se una sperimentazione, nel caso di Steinbeck, non meritasse di essere presa in considerazione o, se presa in considerazione, non meritasse di essere valutata con maggiore apertura.

L’inizio, appena una pagina, prende forma di prologo per uno stacco dal resto sia fisico sia stilistico. La descrizione di grande impatto visivo, di una natura originaria e selvaggia che mostra traccia ma non presenza d’uomo (bella, ad esempio, l’immagine dei conigli che “escono dalla macchia a sedersi sulla sabbia della sera”), introduce a un totale e inatteso cambiamento di passo, fatto di dialoghi e scene forti fino all’epilogo, con il sogno di una vita recitato a voce alta proprio mentre lo si uccide.

Quella che sembrerebbe l’espressione coerente di una morale non convenzionale si conduce fino a un gesto estremo che ha valore di finale aperto, tra ribellione  e ricomposizione dell’ordine, tra esaltazione della marginalità e suo superamento attraverso un’adesione almeno apparente alla legge degli uomini, violenta e drammatica quanto quella naturale, con i suoi disordini e le sue privazioni.

Il gesto finale, proprio perché senza seguito, si veste di un’ambivalenza che andrebbe letta non come riduzione ma come accrescimento di senso, come anche la cifra oggettiva, intrecciata a elementi a volte trasognati a volte stranianti, acquista uno spessore dialettico, tra realtà e sogno, che neanche la morte riesce a superare.

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Mare e terra

Apre la porta guarda e si stupisce:
le lastre di cemento inciso, bianche
schiariscono il giardino
nella notte bluastra
ma è più forte la luce di cristalli
di brina piovuti all’improvviso

allora si accanisce di giorno
e trasforma tutto quello che tocca
pietra legno metallo
ma gli ulivi nella terra rossa
girano i tronchi al vento
e le radici all’acqua

comunque combatte,
premendo ruggine e acciaio
sui fianchi cedevoli d’ardesia
striscia l’artiglio di un aratro
sulle zolle più secche
riempie la linea di una chiglia
e poi la posa a un incrocio di strade,
dove giungono piogge
e l’aria le prosciuga, da sé

c’erano un tempo estati differenti
col disordine liquido del mare
e l’impegno del corpo per la rotta
stringeva i muscoli asciutti
nell’orgoglio del viaggio,
gli occhi di greco aperti
contro un sole che acceca
tutto di sé spiegava nelle vele
l’andare e il ritornare a spiagge
di terriccio sbalzate in colline
tutta la forza nel groviglio
di braccia di corde
e delle reni tese
carne che si stringeva attorno
quasi senza parole
ora la voce è come un graffio di gola
incerti gli abbracci e le fughe
verso terra

torneremo dove la materia si disfa
tra le linee di giunco e strati di maggese
dove alle forme si chiede un respiro
un appoggio sui fianchi
le mani ferme nella presa, basse

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