Ladri di vita vera

Si può essere lontani da certe voci poetiche pur riconoscendone il valore e l’autenticità, e contemporaneamente ci si può sentire vicini agli ambienti storico-culturali in cui quelle voci sono nate e cresciute. Questa, in sintesi, è la mia personale posizione nei confronti della poesia di Giovanni Giudici, la cui scomparsa recente evoca un’ulteriore cesura tra presente e Novecento. Il suo essere rimasto sulla soglia del Duemila senza oltrepassarla, per impossibilità o volontà non fa differenza, rende Giudici esempio ancora più netto di un’epoca conclusa.

Quell’epoca, che sia tutto il Novecento o più in particolare il secondo Novecento (di cui Giudici è ritenuto uno dei poeti più rappresentativi), mi manca e non ho paura di ammetterlo. Non si tratta di preferire il passato ignorando l’importanza delle trasformazioni, che avanzano naturalmente e non potrebbe essere altrimenti. Si tratta piuttosto di agitare la nostalgia (spesso sminuita a sentimento un po’ reazionario) come una bandiera, a difesa di un senso e di uno spessore del lavoro culturale che in passato c’era e che ora non c’è più. Dai post-postmodernismi alle contaminazioni devastanti di tipo serialtelevisivo è stato tutto un precipitare inesorabile verso la vacuità e l’indistinto, specchi su cui i critici si arrampicano con varia abilità, forse per salvare un mestiere altrimenti impossibile.

Per tornare a Giudici, mi va di ricordare soprattutto i suoi anni Cinquanta, l’inizio come poeta e poi il lavoro culturale per Adriano Olivetti, a Ivrea, Torino e poi a Milano, dove fu vicino a Franco Fortini. E poi Prove di teatro 1953-1988 (Einaudi 1989), opera interessante per i versi inediti che raccoglie. Ne ho scelti alcuni dalla poesia intitolata Comacchio: scritta nel 1957, quando ancora si cantavano gli uomini “ladri di vita vera”, appartiene proprio al periodo a cui mi riferisco.

Corre il vento, la terra non ha alberi.
Dove una febbre silenziosa e fredda
di ruote ha sorpassato il mio pensiero

sul pietrisco piovoso lungo i margini,
io – qui – sospinto all’ultimo sentiero
di un’Italia invisibile riemergo

alla fila di lumi che oltre gli argini
d’acque, d’erbe e d’anguille balza. Vedo
Comacchio che s’accende all’improvviso,

isola in questa mia notte ed albergo
non preveduto, casa con i muri
fatti di case…

La querela non è della mia sorte,
ma di tutti questi uomini che passano
e sento nel respiro accanto. Evasi

ladri di vita vera, altri consorzi
inseguono di fabbriche e di ponti
turbinosi, ronzanti in sogno e quasi

toccati, lungo l’acqua nera e bassa
su membrane di fango, quando cedono
senza gridi per queste valli…

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Unico, differente

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Antonio Rezza non somiglia a nessuno. Può tenere la scena per ore da solo, uscendo qua e là dai buchi di una tela per rovistare nell’assurdo impietoso dei luoghi comuni del vivere. Usa il corpo e la parola in modo straordinario, torcendosi e trasformandosi in una fusione continua tra materialità e sottigliezza dell’intelletto, tra realtà e pensiero, tra piattezza smorta del conformismo e irruzione delle differenze, fisiche e mentali. Il tutto si rovescia sul pubblico con incursioni improvvise, tragiche e comiche nello stesso tempo, a cui si reagisce con un riso inconsueto, spontaneo e insieme sconcertante.  Un’esperienza davvero unica, che si fa anche fatica a definire perché esce dagli schemi del teatro e del comico per abbracciare un’espressività di linguaggio e di immagine a tratti autosufficiente, dato che Rezza è anche scrittore e autore e interprete di cortometraggi. Alcuni di questi sono disponibili in rete e meritano di essere conosciuti per l’originalità e la versatilità dell’artista e per il sodalizio riuscito con la scenografa Flavia Mastrella.

Qui rimando a uno spettacolo di diversi anni fa, senz’altro più conosciuto e anche più facilmente digeribile: ci sono affezionata, perché mi ricorda la prima volta che vidi Rezza dal vivo, in un piccolo teatro delle Marche, un po’ per caso e molto per fortuna.

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Voti puliti e voti di scambio

Il Movimento 5 Stelle alle recenti amministrative ha raccolto voti puliti, su obiettivi di democrazia di rete, difesa dei beni collettivi, sviluppo alternativo e azioni concrete, rinnovamento, non delega ma rappresentanza, spirito di servizio, trasparenza. Chi lo ha votato non lo ha fatto per ringraziare di un posto di lavoro, di un favore, di un favoritismo, di soldi ottenuti per sé, familiari e amici in passato, o per procacciarsi cose simili in futuro. Questo è già un risultato straordinario, in un paese in cui la logica del voto di scambio, diretto o indiretto, a tempo o addirittura a vita, è da sempre molto diffusa.

Molte amministrazioni locali si sono rette e continuano a reggersi su questa logica, gestendo deleghe in bianco e consenso fittizio che niente hanno a che vedere con un contributo critico e partecipato alla vita collettiva. Si sono costruiti così, su basi simili a quelle dei contesti mafiosi ma con stili differenti, non cruenti ma falsamente amichevoli, non oppressivi ma falsamente democratici, sistemi di controllo del territorio, dell’economia, dei servizi, dei posti di lavoro, di singoli e gruppi (cooperative, imprese, associazioni, ecc.) che sottintendono un’appartenenza riconoscente simile all’affiliazione.

Questo malcostume ha finito col toccare pesantemente anche i partiti storici del centrosinistra che oggi, di fronte al risultato del Movimento 5 Stelle, reagiscono con sufficienza e fastidio difendendo la propria quota di potere così malamente costruita. Si rendono dunque impermeabili a ogni cambiamento per continuare a gestire legami, risorse e opportunità utili alla sopravvivenza di poltrone e stipendi pluridecennali, che si traducono poi in agio, stabilità e sicurezza per sé e per le proprie famiglie, anche in periodi di grande crisi.

Il centrodestra, dal canto suo, ha preso in mano la scure per distruggere quella stessa quota di potere e per sostituirla con altre ancora più devastanti e a sé più vicine,  distruggendo insieme le fonti del consenso e un intero paese.

Questi sono i fatti. Oggi, però, un nuovo movimento è riuscito a raccogliere voti puliti, da persone forse eticamente più integre e politicamente più genuine. Visto il contesto generale, anche la sola ipotesi che sia così rappresenta un risultato, che va rispettato e protetto da pressioni, infiltrazioni e accordi elettorali che, visti gli attuali apparati (partitici, amministrativi e burocratici) e i loro legami distorti con il territorio, rischiano il solito gattopardesco cambiamento di facciata e non di sostanza.

Pisapia a Milano e De Magistris a Napoli, se eletti, dovranno reggere l’impatto di quegli apparati e di quei legami. Un movimento libero di scegliere e di continuare la sua marcia dal basso sarà più utile e forte dopo, se davvero si vorrà cambiare.

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