Il diritto e la storia

Oggi ho chiesto (a chi, a differenza di me, ha una formazione giuridica) se per il governo esiste un limite nel forzare Costituzione e poteri dello stato. La risposta è stata chiara: il limite esiste ed è stato già ampiamente superato.  E si è aggiunto: non è la storia a seguire il diritto ma, viceversa, il diritto a seguire la storia.

Da lì ho cominciato a riflettere su alcune cose, innanzitutto sul fatto che la storia, spesso, è stata scritta da rivolte nate non da valutazioni razionali o giuridiche ma da occasioni.  Le occasioni più imprevedibili possono funzionare da detonatore di rabbie latenti, accumulate per ingiustizie subìte nel tempo.

Intelligenza, o almeno furbizia, vorrebbe che chi muove i fili preveda una misura colma e corra ai ripari. In Italia sta accadendo esattamente il contrario, con attacchi alle norme democratiche di una gravità crescente che, uniti a una crisi economica pesante, non possono non alimentare un’inquietudine altrettanto crescente. Sugli esiti è difficile dire, ma le premesse per un’esplosione collettiva ci sono tutte.

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I colori del sud

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Lo stile eversivo e rozzo della Lega, che vuole scardinare l’unità del paese, è specchio di un’identità che si finge grande ma è piccola, perché incapace di un confronto con chi vive oltre il recinto in cui si è segregata. Brutta storia finire in un recinto e uscirne giusto per calare a Roma, fare un po’ di bottino e ritirarsi.

Da lì dentro, dal recinto e da Roma, la Lega sventola fazzoletti verdi contro l’Italia e il sud, ignorando l’importanza di entrambi e il prezzo pagato dal sud per l’unità del paese, allora e ancora. Come il suo popolo sembra ignorare la trasversalità di ogni sfruttamento e corruzione, dalle Alpi agli Appennini alle isole.

Per fortuna il sud migliore non agita fazzoletti di un colore solo minacciando secessioni, perché è terra del mondo e piena di colori. Non ha recinti, offre manodopera e accoglienza, sostiene il peso maggiore delle inefficienze politiche e delle criminalità, fonde e diffonde linguaggi, arti e culture differenti.

Il sud migliore ci ricorda anche l’ironia con cui andrebbero trattate patrie e bandiere, e la serietà pericolosa di chi è costretto a difenderle per timore di finire peggio.

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Il discorso è un altro

Ho visto “Il discorso del re”, da molti definito un bel film, e quello che spesso mi capita di notare in casi simili si è ripetuto: il prodotto prevale sull’arte, la bella confezione sul messaggio.

Se prendi una storia che può piacere a molti, una sceneggiatura pulita, una regia  efficace, qualche attore bravo e conosciuto e poi mescoli tutto, la ricetta funziona. Se però passi all’assaggio, non trovi il tratto originale che distingue un film d’autore da un qualsiasi film. L’effetto è più o meno quello che fanno certi oggetti di serie, perfetti, curati, esteticamente gradevoli e tanto rassicuranti.

I film brutti, irrisolti, da un certo punto di vista sono meno pericolosi, perché non mettono in discussione l’importanza di uno spessore artistico, anzi. E’ quella zona grigia, quella piattezza estetica verso cui scivolano tanti film che rischia di minare le aspettative anche esigenti del pubblico, abbassandone il livello e la capacità critica.

Di questo film, in particolare, non mi convince la minore profondità e ricchezza di toni del personaggio del re, protagonista dell’intera storia, rispetto a quella del logopedista che gli fa da spalla. Anche nella qualità della recitazione il secondo (il bravo Geoffrey Rush di Shine) supera il primo (Colin Firth), che nel rendere una condizione psicologica compressa forse finisce per non toccare tutte le corde a sua disposizione. Non mi convince nemmeno l’ottica ristretta e privata con cui è narrata una vicenda personale che, quando è raggiunta da eventi come l’ascesa del nazismo e la guerra, si mantiene comunque al centro, riducendo il resto a un fondale di scarso peso e realtà.

Certo, il punto di vista scelto e dichiarato fin dal titolo (il discorso “è” del re) è stato onorato fino in fondo, e con una coerenza così puntigliosa, anche nello stile, come forse soltanto un inglese avrebbe saputo fare. Viene però da chiedersi se una minore rigidità di prospettiva, a favore di una maggiore coralità se non di personaggi almeno di contesto, non avrebbe aggiunto quell’ingrediente in più che manca alla ricetta per farla diventare speciale.

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