Volponi, margine e profondità

Volponi e PasoliniRiemergono libri dal passato che procurano la vertigine di quello che si è perso. Ho in mano “Scritti dal margine” di Paolo Volponi, raccolta di interventi pubblicata da Manni nel 1995. Basta aprire qualche pagina a caso e leggere per trovarsi immersi in una profondità di osservazione del reale a cui non siamo più abituati. Le dinamiche, infatti, benché provvisorie e percepite da una posizione di margine, sempre danno luogo ad analisi meditate e complesse, mai scontate, in un’alternanza di relazioni e solitudini che spaziano tra natura e cultura, filosofia e politica, internazionalismo ed esempi, cioè paradigmi della dialettica viva e bruciante di esperienze collettive (gli studenti della Pantera, ad esempio). Oppure individuali, come quella di Pasolini, scandaloso e lucidissimo sempre, anche nelle contraddizioni, monumento vivente di alterità.
In passato la militanza culturale teneva insieme impegno e ricerca letteraria. Prese di posizione puntuali e spesso scomode emergevano da un sano e incessante esercizio di critica, diventando visione e previsione eretica, orientamento verso un punto lontano che poi poteva diventare, se già non lo era, una sorta di sentimento comune.
Oggi scrittori finti, aderenti a una finta sinistra, scrivono libri finti sul proprio desiderio di essere come tutti per vincere premi finti e incassare finti consensi di lettori finti. Superficialità e conformismo  si spandono a macchia d’olio su un baratro né visto né capito o, se intravisto, prontamente negato in nome di un successo altrimenti incompatibile.
Basterebbe rileggere qualche riga di Pasolini, che Volponi riporta nuda e cruda a pag. 22, per toccarne con mano la sconvolgente acutezza e per rivedersi, oggi, nel pieno di una desolante nullità di storia e di prospettiva:
Ogni artista si adempie secondo un complicato e fitto reticolo di proiezioni che partono dal momento storico che lo determina e che egli conosce ed esprime: quando questo momento storico è zero, l’artista impazzisce: è in uno stato di confusione, o di pseudo-sicurezza su valori ormai superati.
E’ dopo aver vissuto questa situazione impossibile, e dopo aver capito – non partendo da zero, ma dalla sommità delle esperienze culturali e storiche vissute anche a rovescio, come delusione – di cosa realmente si tratta, che può cominciare una terza fase storica dell’impegno.

Ecco, la sensazione è che oggi si sia irrimediabilmente oltre.

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In difesa dei cardi

QuasiunabbecedarioE’ uscito postumo per Casagrande un libro di Giorgio Orelli curato da Yari Bernasconi e intitolato “Quasi un abbecedario”.
Sul valore di quel quasi, nel titolo e oltre, si potrebbe discutere a lungo. Orelli stesso ne discute e ricorda che Saba gli suggerì di inserirlo in un suo novenario. Lui seguì il consiglio e quel novenario diventò l’endecasillabo “in quest’alba che quasi non odora”. Quasi è parente del forse, prosegue Orelli, e il forse era per Leopardi la parola più poetica della lingua italiana. Tra il non detto e il dubbio, del quasi e del forse, si gioca parte di un meccanismo poetico che sottrae, sposta, allude.
Che poi il libro sia un vero abbecedario, o quasi, lo si deduce dall’ordinamento alfabetico che mostra, una dietro l’altra, definizioni molto discorsive e personali a partire da nomi comuni e propri. Da Anitra a Walser, l’andamento un po’ rabdomante fa sì che certe lettere non siamo presenti e certe altre, come la C, siano addirittura rappresentate da ben quattro nomi.
Uno di questi è cardi. Dice Orelli: una bella parola, con la prima sillaba dura e la erre implosiva. Appunto, ma per lui il cardo rappresenta quelle sue poesie, in versi o in prosa, scritte “civilmente, eticamente, politicamente”. Dunque poche e minori, per un pregiudizio che, chiamando in causa Dante e Montale, attesta la quasi impossibilità di una poesia dell’impegno.
Segue una quasi rivendicazione dei cardi che qua e là sono scappati anche a lui, anche in libri recenti, e poi una piroetta finale che sublima la sua pulsione quasi fosse una colpa: “I cardi…della val Piumogna. La sera, al tramonto, s’accendono fino a diventare accecanti. Quelli sono i cardi a cui penso, sempre”. Così è pace fatta con la splendida bile oraziana, inconciliabile con la poesia profonda.
Eppure (o forse o quasi, se più poetici) gran parte della nostra esistenza è proprio dentro quei cardi spinosi, nell’inconciliabilità come condizione di un esercizio critico umano e necessario, ben oltre ogni sublimazione e ogni subdola tentazione di canto. E portare quei cardi fin dentro la profondità della poesia è l’unica strada possibile. O forse impossibile, ma comunque bisogna provarla e soprattutto crederci.

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Carlo Giuliani

Bisogna vivere in strada per poterne parlare. Anche d’inverno, quando un vento teso morde i caruggi agli angoli e ci s’infila e fruga. Sibila con toni bassi, rasoterra. I randagi, al riparo in qualche rientranza, lo ascoltano e a volte gli rispondono.
Quel giorno era luglio. Un vento più calmo inseguiva la pioggia e la spostava oltre. Asciugava, puliva, riordinava i bivacchi di gente venuta da fuori. Sparsa nelle periferie, lì veniva respinta se si avvicinava al centro.
La città era ormai sotto assedio, in poche ore l’avevano presa, isolata e divisa con muri, facciate finte, transenne, blindati di traverso. Avevano recintato il mare. Un elicottero sopra il porto tracciava cerchi sempre più stretti.
Non conosco la storia, mi hanno appena spiegato le guerre di conquista e le adunate del sabato, come si è resistito tra i paesi e la macchia, imparando la forza per necessità. Sono un giovane esile, piccolo come un bambino, che vive per strada.
Per strada, quel giorno, ho visto giovani spingere muri a mani nude e cadere senza rialzarsi. Non si toglie l’aria a chi la respira, una città a chi la vive.
Non mi ero mai coperto il viso, mai, nemmeno d’inverno per il sospiro gelido del vento. Ho la pelle sottile, quasi trasparente, e lo sguardo chiaro, diritto. Quel giorno, però, ho visto troppo. Quando si vede troppo lo sguardo s’offusca e prende traiettorie strane, cerca salvezza forse, o un po’ di dignità. Ho detto ci sono coprendomi la faccia, ci sono anch’io ribellandomi. Ci sono anch’io che vivo per strada senza muri, tra i randagi sparsi senza storia.
Avevo visto troppo. E poi più niente, né gli altri né la strada del mare, né il cielo sopra a farmi da coperta.

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