Asimbonanga

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Dov’era civiltà oggi è deserto, eppure ci sono ideali che ti lavorano dentro e ti permettono di respirare, di guardare avanti. Non sono produzioni del pensiero o fughe dalla realtà, ma esempi concreti che coincidono con persone e vite spese a combattere per una causa precisa. Come la liberazione dalla schiavitù e dallo sfruttamento, ad esempio, che vengono prima di ogni altra cosa.
Schiavitù e sfruttamento possono prendere forme infinite: esplicite o subdole, violente più o meno, esigono comunque e sempre una ribellione, pena l’impossibilità stessa di vivere, e di vivere come essere umani. In certi casi, la ricomposizione successiva può darsi come passaggio obbligato, per sopravvivenza e convivenza civile. Questa è forse la parte dei conflitti meno sperimentata e analizzata, eppure da essa dipende il senso e la dignità di una ribellione necessaria, anche nella sua trasformazione.
In altre parole, esiste la ribellione che libera e poi la liberazione dalla ribellione stessa. Questo secondo passaggio è delicato e difficile quanto o forse più del primo. Richiede l’analisi e il riconoscimento collettivo di privazioni, ingiustizie e violenze, senza passare per le scorciatoie facili e insieme terribili della rimozione e del revisionismo. Chi è stato nemico rimane nemico, ma viene riconosciuto tale in una forma nuova, che libera le vittime e genera, nel migliore dei casi, un’evoluzione benefica per tutti.
Mandela ha avuto il coraggio e la forza di attraversare entrambe le fasi, intrecciando tutti i livelli (fisico, psicologico, umano e culturale, civile e giuridico, individuale e collettivo) di una sperimentazione che tanto potrebbe insegnare a chi ha bisogno di chiudere con un pezzo di storia.
Mi viene in mente Israele, chiusa nella circolarità di una violenza inaudita (quella dell’Olocausto) che ancora oggi rilascia violenza, energia che non si esaurisce e nemmeno si trasforma.
E mi viene in mente l’Italia, immobilizzata in un fallimento totale dal quale potrà uscire soltanto riconoscendone collettivamente tutte le responsabilità: un passaggio obbligato, che va fatto senza scorciatoie e sconti, in nome di una verità senza la quale sarà impossibile andare avanti.
La verità è sempre rivoluzionaria, conoscere e riconoscere è il primo passo di ogni cambiamento. La mistificazione conserva, impedisce, rende schiavi.
So che in qualche angolino della Fondazione Mandela c’è, tradotto in inglese, questo breve racconto dedicato a una piccola comunità greca che vive in pace con un assassino: una pace diversa dal perdono cattolico perchè più complessa. O forse più semplice e naturale, dipende dai punti di vista.

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La verità è sempre rivoluzionaria

La verità è sempre rivoluzionaria. Soprattutto è indispensabile per cambiare: senza verità tutto è destinato a rimanere uguale o a degenerare. Verità e riconciliazione sono due capisaldi della liberazione di un popolo. Ma il nemico rimane nemico, anche nella riconciliazione necessaria per vivere: per dovere di giustizia, per dignità e differenza, per inconciliabilità degli opposti. Questa è la strada battuta con tutta la sua forza da un padre nero di nome Mandela, oggi con il pugno alzato verso un cielo diverso.

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Dedicato ai traduttori

Torno su Wallace Stevens e su “The Snow Man”, poesia che amo tantissimo, perchè nel frattempo un traduttore anonimo mi ha inviato una sua versione in italiano. Si tratta di un’operazione così libera da sfiorare, in certi punti, l’arbitrarietà. Per questo ringrazio doppiamente. Spero anche che prima o poi il fantasma di questo traduttore si materializzi, chiunque sia e dovunque si trovi.
Fiumi di inchiostro si sono scritti sui traduttori – traditori, menti abitate dalla voce degli altri. Infaticabili e malpagati, tormentati fino all’ossessione da una sola parola o da un frammento, dobbiamo loro la possibilità di avvicinarci a un’infinità di testi altrimenti incomprensibili. A volte sono raffinatissimi, scrittori e critici insieme, eppure bruciano nel fuoco sacro di qualche piccola o grande babele la loro hýbris creativa, sublimando nel metodo e nella disciplina ogni spinta alla trasgressione.
A volte rincorrono i “loro” scrittori per una vita intera, tessendo tele di prove e controprove attraverso epistolari che restano, offrendo materiale ulteriore perchè l’attività critica avanzi e qualche segreto in più possa svelarsi. Lo stesso Renato Poggioli fece così con Stevens, in un confronto rispettoso e tormentato che ancora oggi ci parla. Erano gli anni Cinquanta mentre oggi siamo nel terzo millennio, ma la sostanza non cambia: rigore e libertà, sempre.
Riporto di seguito il testo originale e la sua versione anonima. In fondo, c’è qualche somiglianza tra chi traduce e l’uomo di neve stevensiano: osservazione oggettiva, rispecchiamento, attesa di un qualche disgelo.

One must have a mind of winter
To regard the frost and the boughs
Of the pine-trees crusted with snow;

And have been cold a long time
To behold the junipers shagged with ice,
The spruces rough in the distant glitter

Of the January sun; and not to think
Of any misery in the sound of the wind,
In the sound of a few leaves,

Which is the sound of the land
Full of the same wind
That is blowing in the same bare place

For the listener, who listens in the snow,
And, nothing himself, beholds
Nothing that is not there and the nothing that is.

Bisogna avere la mente dell’inverno
per osservare il gelo e le fronde
dei pini incrostate di neve;

E avere avuto freddo tanto tempo
per vedere i ginepri martoriati dal ghiaccio,
gli abeti ruvidi fra scintillii lontani

del sole di gennaio; e non pensare
a tutte le miserie nel mormorio del vento,
nel suono di poche foglie,

che è il suono della terra
piena dello stesso vento
che soffia in quello stesso luogo spoglio

per chi è in ascolto, e ascolta nella neve,
e, nulla di se stesso, vede
là il nulla che non c’è ed il niente che è.

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