I decadenti e il decaduto

Se oggi Berlusconi decade dalla carica di senatore c’è poco da ridere. Un personaggio tale, devastante per lunghi decenni, andava sconfitto molto prima e politicamente. Invece è stato sostenuto, più o meno direttamente, da un arco costituzionale pressoché intero e da chi oggi sembra voltargli le spalle per rinsaldare i ranghi di una partitocrazia indifferenziata. Non è un caso se fino all’ultimo si sono cercate per lui tutte le scappatoie e le dilazioni possibili, forse per continuare sotto sotto a tesserci affari e ricatti indicibili. Chi ha contribuito a distruggere questo paese, a qualunque parte politica appartenga, meriterebbe quella stessa sconfitta politica che a Berlusconi è mancata. E che invece, in questa giornata davvero subdola, sembra quasi rivendicata nei suoi confronti, prendendo a pretesto vicende giudiziarie che, pur molto gravi, sono altra cosa rispetto a una vittoria di sostanza e anche di prospettiva. In sintesi: pochi possono permettersi giudizi e festeggiamenti, mentre molti farebbero meglio a tacere.

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Le cose come sono

Sono tornata a leggere Wallace Stevens spinta da appena sei pagine (p. 224-229) dell’ultimo saggio di Filippo La Porta (“Poesia come esperienza”, Fazi 2013).
Per inciso, il libro di La Porta è un esperimento riuscito di divulgazione della poesia: mai accademico, originale e diretto, curioso di una curiosità che contagia, anche quando parla di autori che a suo tempo ho studiato per forza, e che poi ho trascurato in nome di una ricerca più libera.
Questo non è il caso di Stevens, che torna con tutta la forza enigmatica, a tratti ostica e fuorviante, di una metafisica della realtà che si fa verso, anche con esplicite e reiterate dichiarazioni di poetica: melodia o rapsodia “delle cose come sono” (“The Man with the Blue Guitar”), “cosa certa che ci regge in certezza”, “preda in sé solida e perfetta” (Credences of Summer”). Stevens è poeta della mente e della fisicità delle cose, due dimensioni strettamente collegate fra loro in una contraddizione forse soltanto apparente. E preziosa, perché generativa della poesia come potente riscatto dal nulla, oggetto esso stesso tra gli oggetti, insidia di svuotamento e insensatezza.
Di Stevens amo soprattutto il primo movimento della famosa “Sunday Morning”, un esempio di poesia vera, nuova e infinita anche all’ennesima prova di lettura. E soprattutto altra e sfuggente di fronte a qualsiasi traduzione, anche in un italiano più ammodernato e meno retorico di quello, ad esempio, degli anni Cinquanta (e di Renato Poggioli, di seguito citato dalla versione per Einaudi uscita con il titolo “Mattino domenicale e altre poesie”):

Lusinghe di vestaglia, ad ora tarda
Caffè ed arance sulla sedia al sole,
La verde libertà di un pappagallo,
Su un tappeto si fondono a disperdere
Silenzi di un arcaico sacrificio …

E poi amo la bellissima “The Snow Man”, che chiude proprio con “quel nulla che è e che non è”, dito nella piaga di un dualismo antico che Stevens declina in modo nuovo e differente rispetto a tanta tradizione europea: ferma al chiodo, verrebbe di dire, mentre lui vola.

Si deve avere un animo d’inverno
Per contemplare questo gelo e i pini
Con le rame incrostate dalla neve;

E avere avuto freddo lungo tempo
Per guardare i ginepri irti di ghiaccio
I rudi abeti nel brillìo remoto

Del sole di gennaio; e non pensare
D’alcun duolo nel gemito del vento,
O nel suono di queste poche foglie,

Voci di una regione visitata
Da quel vento che sempre
Sibila sullo stesso nudo luogo

Per chi ascolta, chi ascolta nel nevaio,
E nulla in sé medesimo, contempla
Là quel nulla che è e che non è.

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Decolonizzarsi

Dovunque si è andata affermando una nuova forma di colonizzazione, aggressiva e diffusa, che comporta il controllo e lo sfruttamento di territori e risorse con l’imposizione di modelli di vita devastanti. Rispetto a quelle tradizionali, questa colonizzazione ha polverizzato il concetto di confine nazionale e la stessa impalcatura democratica degli stati, prima svuotati e poi superati in nome di una trasversalità che non è transnazionalità ma cartello, trust, un assalto continuo alla vita e all’indipendenza di intere popolazioni.
In Europa, ad esempio, non esistono consoli e proconsoli di vecchia rappresentanza ma nuove e dinamiche figure di colonizzatori, che agiscono come terminali di interessi finanziari e promoter. Sono élites molto ristrette, mobili e intercambiabili, fatte da individui che si bruciano in fretta per essere sostituiti da altri più rapaci. Hanno in appoggio la rete dei media che, con altrettanta aggressività e mistificazione, garantiscono il consenso e rafforzano il modello, sovrapponendo alla realtà una sua lettura stravolta, funzionale all’annientamento di qualsiasi capacità critica.
Così operano a pieno ritmo intere fabbriche del falso, costruite spesso con sciatteria (tanto la soglia culturale si è abbassata) e a volte con arte (molta borghesia italiana ama le bugie ben vestite). E così, poveri e meno poveri, ignoranti e meno ignoranti, tutti si cade nella stessa ragnatela, diventando moltiplicatori di falso, macchine stupide del sistema.
Anche chi conserva un po’ di spirito critico non è immune dal rischio, perché contestando i molti fili di quella ragnatela finisce, di fatto, per tessere sempre lì dentro. Questa è forse la fattispecie più subdola e pericolosa della colonizzazione del pensiero, la trappola che imprigiona i più liberi.
Tanto per fare un esempio, se questo fine settimana avessi dato retta all’agenda mediatica italiana (tentacolare anche in Internet, pure la rete andrebbe decolonizzata), avrei fatto e scritto altro. Tanto c’era da dire: di un Ministro della Giustizia colluso con detenuti eccellenti; di Scalfari e Repubblica, imbonitori reazionari di una grossa fetta di borghesia italiana ancora convinta di essere progressista (e invece: squadrismo buono, di tacco e di punta, ora anche in cerca di benedizione papale); del negazionismo (terribile) da perseguire per legge (altrettanto terribile: a quando una legge che persegua chi dice qualsiasi stupidaggine? o che persegua chi dice la verità? per caso è lì che si vuole arrivare?), per orgogliosa trovata di chi non ha mai impedito nemmeno la ricostituzione del partito fascista o di qualche suo succedaneo, con il quale peraltro governa; di Dario Fo che chiede al Vaticano lo spazio per portare in scena le idee di Franca Rame, quando ancora, buon per noi, esistono le piazze; del terzo rogo contro i No Tav; dei giovani arrestati durante la manifestazione del 19 ottobre a Roma, tutti poi rilasciati perché incolpevoli (e nessuno lo dice); dell’America che ci spia, quasi fosse una novità; del grande statista Berlusconi e di tutti i suoi amici, passati, presenti e futuri, grandi statisti anche loro, e per questo incapaci di dargli il benservito; della Terra dei Fuochi; di un Presidente della Repubblica che agisce come Capo del Governo, complice tutto il Governo e gran parte del Parlamento; del debito che cresce e della nostra incapacità di analizzarlo, ricusando chi ne è responsabile.
La lista potrebbe continuare, ma è loro e non mia, il disastro è loro e non mio. La decolonizzazione passa anche da qui, dallo sfilarsi dalle loro agende fatte di cattive notizie. Se fosse per loro, ci nutrirebbero di cattive notizie e di paura, per poi presentarsi come salvatori. Loro, i salvatori, quando invece sono i nuovi colonizzatori della vecchia Europa e di questa povera Italia del ventunesimo secolo.
In giro, però, per fortuna c’è anche altro: la capacità di creare e di resistere, di amare, di ridere e sorridere, di essere solidali, essenziali, originali, di essere in definitiva se stessi. Questa è la scommessa quotidiana, scoprire spazi inimmaginabili di umanità integra sfuggiti alla colonizzazione, spazi da difendere ma soprattutto da vivere senza timori, convinti che sia giusto così.
Proprio ieri ne ho visto un esempio: pezzi di vecchie macchine che un meccanico (Adino Amagliani), nel corso della sua vita, ha fatto diventare arte, poesia e visione del mondo, sculture per tutti che un fotografo (Alberto Raffaeli) ha poi moltiplicato in immagini, amplificando con spirito di servizio il messaggio di un’arte materiale e spontanea. Un esempio di sensibilità, non soltanto artistica, di due uomini differenti ma insieme, quasi a dire: noi siamo qui (anche in questa maledetta domenica, in cui alcuni parleranno dell’ultimo “fondo” di Scalfari mentre altri moriranno di fame), per offrire qualcosa a chi vuole, a chi può.
Scriveva Brecht:

Quali tempi sono questi, quando
discorrere d’alberi è quasi un delitto,
perchè su troppe stragi comporta silenzio

Serve invece liberarsi dalle rappresentazioni del negativo, tutte interne alla logica di chi ci vuole replicanti, incapaci di cultura autentica. Che invece va ricostruita con tenacia su altri terreni, da strappare ai nuovi colonizzatori così come fa l’indigeno che protegge la sua foresta.
E allora parliamo di alberi, anche per parlare di noi e di tutto quello che siamo, indipendentemente da loro. Se fosse ancora vivo, oggi, forse anche Brecht ne parlerebbe.

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