Un balbettìo appena

Finito di leggere “La lucina”, ultimo libro di Antonio Moresco, resta l’eco di un’esperienza immensa che non si sa definire. Qualsiasi approccio produrrebbe imbarazzo e inadeguatezza, per limitatezza e parzialità del confronto. Un balbettìo appena mi permette di dire che si è trattato di un viaggio infinito, non so bene dove ma molto, molto lontano. Da un viaggio così nemmeno si torna indietro, al più si fuoriesce da un punto inaspettato,  non collocabile nello spazio e nel tempo, altro e alterato come il libro stesso: un lavorìo sull’infinito che mette insieme grande e piccolo, alto e basso, dentro e fuori, prima, dopo e oltre, con una naturalezza di esiti, di realtà e di stile, così perfettamente fusi da risultare quasi inquietanti. Non ho memoria di un libro che mi abbia fatto tremare le mani come questo, al pensiero immediato, e poi di pagina in pagina confermato, di avere a che fare con qualcosa di appartenente a quella categoria così arbitraria e netta, così intuitiva ma anche lucida, che molti chiamano capolavoro. Altro non riesco a dire, almeno per ora, se non del fastidio per un’etichetta editoriale e padronale (Mondadori) tra le peggiori. Un vero peccato, e limite di un contenuto che si fa merce, mentre dovrebbe uscire dalle pagine e spargersi come memoria e come voce, nell’aria e ovunque, dalle radici alle foglie, dagli occhi ai corpi. Un libro così dovrebbe ribellarsi al mercato, con atti di sovversione e trasmissione insieme che ne rispettino fino in fondo la totale e salvifica alterità.

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Un titolo spudorato

“Ho sentito Aldo Moro che piangeva”: è un titolo spudorato quello che Imprimatur editore ha scelto per pubblicare il diario apocrifo del brigatista Prospero Gallinari, scritto nella prigione di Aldo Moro, lo statista democristiano sequestrato e poi ucciso dalle Brigate rosse. Se esistesse un codice etico per l’editoria un titolo così andrebbe subito sostituito, perché non si può sbattere in copertina, così esplicitamente, la manifestazione di una sofferenza: a chiunque appartenga, e specie se ingiustificata da motivazioni stilistiche. L’unica giustificazione sembrerebbe venire dal mercato, che come al solito vince su ogni scrupolo umano e deontologico. E sulla decenza, ormai fatta a pezzi dai media. Tanto per intenderci, un sequestro di persona oggi rischierebbe di andare in diretta, senza alcun problema e minuto per minuto, da un luogo imprecisato ma con infinita precisione di dettagli.
Tornando al libro, si tratta dell’annotazione molto scarna di quanto accadde dal 16 marzo (giorno del sequestro di Moro) al 9 maggio 1978 (giorno del ritrovamento del suo corpo), eseguita da uno dei brigatisti che vi hanno partecipato e poi rielaborata per la stampa. Con l’esplicitazione che si tratta di una versione apocrifa e, come tale, senza alcun valore documentario. E allora, ci si domanda, quale altra utilità avrebbe? Quella della curiosità voyeuristica per qualche intimo o macabro particolare? Di cui peraltro, per essere subito chiari, nel libro non c’è traccia, nonostante il titolo tendenzioso.
Il fastidio per un’operazione editoriale simile rischia di lasciare sullo sfondo altre riflessioni più utili e per nulla indolori. Come quella, peraltro venuta avanti nel corso degli anni, che si rinnova leggendo a pag. 79 di come si sia consumata tra stato e Br una partita tutta interna al potere e alle sue tattiche folli e feroci. E’ il 19 aprile e viene diffuso il settimo comunicato delle Br, con l’annuncio che Moro è stato giustiziato e che il suo corpo è dalle parti di Rieti, dentro il lago della Duchessa. Il comunicato è falso e pare sia Moro stesso a spiegare ai brigatisti il motivo di un’operazione simile: chi è al governo sta facendo la prova generale della sua morte, per misurare in anticipo la reazione dell’opinione pubblica e per mostrare alle Br la sua piena capacità di marginalizzarle, gestendo unilateralmente il caso. Insomma un colpo di teatro, della più cinica e scaltra fattezza che stato e apparati insieme potessero darsi, un affondo finale che mostra tutta l’insensibilità di un potere politico, capace prima di disconoscere la credibilità di Moro (che nel frattempo aveva inviato dalla prigionia alcune lettere) e poi di seppellirlo da vivo.
Oggi anche più di allora, considerando i fatti dei decenni a seguire, credo che la scelta di non schierarsi “né con lo stato né con le Br”, fatta dal Movimento a cui appartenevo, fosse l’unica giusta e possibile. Da una parte c’erano stato e servizi che per trent’anni avevano coperto stragi, tentativi di golpe e interessi opposti a quelli delle classi popolari, in più sostenuti da un Partito comunista che ne trovava giustificazione nell’emergenza (un po’ come oggi, verrebbe da dire). Dall’altra un manipolo di folli sanguinari, che avevano lasciato già in terra cinque uomini della scorta, credendo di essere in guerra nel senso militare del termine, e convinti di poterla vincere con il sostegno di quelle stesse classi. Delirio di onnipotenza, errore di prospettiva o cos’altro? Si poteva spiegare loro che essere rivoluzionari non significava necessariamente essere terroristi e che si poteva combattere la propria guerra quotidiana senza militarizzarsi, possibilmente a mani nude e possibilmente in tanti? No, non si poteva. E così fu che tanti della mia generazione si trovarono schiacciati tra due opposti, stato e Br (in realtà complementari nel distruggere ogni critica al sistema e qualsiasi tentativo di cambiamento), e poi travolti dalle leggi speciali, dalla criminalizzazione del dissenso e da quel terribile deserto che furono gli anni Ottanta: terreno fertile per le bombe di mafia, per il ventennio berlusconiano e poi per gli anni a seguire, come e peggio di prima.

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Aspettando risposte

L’ultimo libro di Gilberto Severini s’intitola “Backstage”, un po’ in dissonanza con la cifra tutt’altro che modaiola dell’autore. Il suo contenuto ha la forma di un lungo messaggio destinato all’editore (Playground), sulla possibilità e impossibilità di scrivere un nuovo libro. Che intanto si compie così, tra diario e ricordo, citazione e nota di costume, riflessione che collega passato e presente, ironia e controllo stilistico. Severini asciuga il suo sentire in una forma che coinvolge senza mai travolgere chi legge, rispettando la giusta distanza e permettendo di elaborare in libertà una propria posizione rispetto agli interrogativi sollecitati. Fra essi quello, centrale, sull’orfanità come condizione diffusa e indipendente dalla morte di un padre, e poi sullo svuotamento di senso dei riti comuni nel corso degli anni, e infine sul ricordo. C’è tanto ricordo in questo libro, più partecipe che nostalgico, più rivolto alla vita che viene che al passato, più testimoniale che testamentario. E vi scorre un’affezione di luoghi, fatti e persone che, nel mio caso e per motivi biografici, ha finito per accorciare la distanza di cui si diceva toccando qualche corda emotiva. Più di una volta sono sobbalzata all’immagine, nitida e quasi presente, di personaggi conosciuti in Ancona e ritrovati nel libro dopo tanti anni, dentro rappresentazioni di grande efficacia. C’è Silvano Paganelli, ad esempio, uscito dagli anni Settanta in una notte infelice, lasciandoci orfani dei suoi versi e delle sue battaglie civili. E poi Franco Scataglini, poeta ormai consacrato dalla critica, ricordato attraverso la forza di qualche sua quartina e con il racconto discreto di un rapporto intellettuale chissà quanto intenso. Incontri autentici come la Marca che li ha generati: sobria e profonda, ruvida e gentile, artigiana e geniale, riflessiva sempre, fin quasi alla mania, finita nelle pagine indirizzate a un editore di differente geografia ed esperienza. Quale effetto gli potranno aver fatto, al di là della scelta di pubblicare il libro… Un buon libro, per la verità, perché Severini non tradisce mai gli appuntamenti. E ti porge la sua scrittura con un gesto garbato, come un calice di vino nostro: fermo, maturo, con tante sfumature e un retrogusto che resta e ti lavora dentro, “aspettando risposte”.

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