Di questi giorni

Immagine anteprima YouTubeQuesti giorni dovrebbero essere di silenzio riflessivo e di pochissime parole, da dirsi soltanto se accompagnate da atti concreti che cambino profondamente il sistema politico che è imploso. E invece si riversano ovunque (in rete, sui giornali e nelle tv) fiumi di discorsi inutili. L’entropia è alta, troppo alta ovunque, e un movimento di cellule presunte sane rischia di essere aggredito dallo stesso virus che ha mangiato da dentro i partiti. Occorrono calma, coraggio e profonda limpidezza di sguardo, perché si tratterà di guardare l’abisso senza esserne risucchiati. I giovani a cinque stelle si proteggano, vadano in cima a qualche montagna o in mezzo a qualche campagna, stiano lì tutti insieme in una specie di ritiro a respirare profondamente e a concentrarsi. Fino all’ingresso nel palazzo, integri almeno fin lì. Dove la partita non sarà semplice, perchè si tratterà di difendere un grande patrimonio di speranze elettorali da meccanismi da guerra molto ben oliati. E tutto questo mentre il paese sprofonda in una crisi senza precedenti, con i veri responsabili che tentano di proiettare la propria annosa inadeguatezza sugli ultimi arrivati.
Personalmente non credo negli intellettuali come categoria, come non credo in quelli che vengono definiti lavoratori della conoscenza, ancora una volta ingabbiati in una categoria. Tanto meno credo che si tratti, in entrambi i casi, di gruppi di maggiore importanza sociale rispetto, ad esempio, a quelli dei camionisti o dei braccianti a giornata. Anzi, credo che qualsiasi attività intellettuale vada accompagnata da un forte spirito di servizio e da un continuo mescolamento con la realtà, pena la possibilità stessa di darsi. E allora, in risposta a fiumi di parole cosiddette intellettuali scorsi in questi giorni, molto capaci di certezze e poco di dubbi e speranze, scelgo il cortocircuito di una poesia scritta e cantata da Fabrizio De André: smisurata come solo le poesie vere sanno essere, e soprattutto capace di realtà.

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Piazza

Una finta di corpo e sei davanti
alla porta, tira finché sei in tempo
mentre il paese crolla nell’acqua
di fossati secchi da secoli,
in un errore liquido che scende
verso il mare trascinando
i cementi degli argini

ora la piazza è uno stadio
di folla, fitta sotto bandiere
dai colori più esangui
e dalla rabbia fredda
tira dritto nel fango
di aggettivi e titoli,
spinti a intasare memorie
e caselle di posta
mira alla porta di assenti
temporanei dai giochi,
marca stretto il nemico

che intanto non finisce,
ghiaccio che ustiona ogni giorno
lo scarto e l’appoggio, di reni e
gambe sotto un peso di testa

e poi il tiro lontano che non
si capisce, oltre la piazza
e verso primavera

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Voto terapeutico

Una grave malattia ha aggredito il paese: patrimonio comune e convivenza civile sono stati colpiti da un bombardamento di cellule, malate di corruzione politica, di interessi verticali, di democrazia e comunicazione stravolte. Questa degenerazione si può fermare soltanto immettendo nei tessuti rappresentativi il maggior numero possibile di cellule sane: persone nuove, estranee ai partiti, primi responsabili del disastro generale. Il debito pubblico, che a fine 2012 ha toccato il suo massimo storico, insieme a tutto il resto spinge a cercare chi possa agire diversamente e in fretta, prima dello schianto finale. E prima che si lascino per terra altri morti, dopo quelli di Berlusconi, di Monti e di chi, più o meno direttamente, li ha sostenuti. E che, nonostante tutto, li sosterrà di nuovo.
Si obietterà che anche cellule apparentemente sane possano essere ormai contaminate, ma tra contaminazione certa e contaminazione probabile la seconda dà più speranze.

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