I valsusini insegnano

Immagine anteprima YouTubeI valsusini insegnano che una popolazione può resistere per oltre vent’anni alla realizzazione di una grande opera (in questo caso il tratto ferroviario ad alta velocità Torino-Lione), impegnandosi, documentandosi, spiegando agli altri le proprie ragioni, presidiando la propria terra e difendendone il futuro. Dimostrando, anche, che certe battaglie non hanno dimensione soltanto locale, perchè una grande opera purtroppo ne descrive molte altre per: inutilità; danni all’ambiente, alla salute e alla qualità della vita; spreco di risorse economiche pubbliche; infiltrazioni criminali nella realizzazione; militarizzazione del territorio; deregolamentazione nella gestione delle risorse; partiti in appoggio per trarne qualche utilità. E, soprattutto, per riferirsi a un modello di sviluppo ormai anacronistico, irrazionale, letale.
Una grande opera spesso corrode la democrazia, per impopolarità e conseguenti modalità di attuazione coercitive e violente. Anche la gestione di un’emergenza può funzionare così, come può accadere che il concetto di emergenza si applichi addirittura all’attuazione di una grande opera, a tutela di enormi somme di denaro pubblico da spendersi entro determinate scadenze, perché previste da legge o da patti non sempre confessabili con la catena lucrativa (o inaugurativa, nel caso di scadenze elettorali).
Il movimento No Tav, dopo più di vent’anni di resistenza, soltanto sabato scorso ha potuto vedere l’ispezione delle zone militarizzate da parte di un gruppo di parlamentari che ne condivide le ragioni. Poi l’ennesima marcia, a conferma che l’impegno continua, per il bene di tutti.
La speranza è che sabato si sia fatto un altro passo avanti. Perché, se la volontà di movimenti radicati sul territorio si salda con una rappresentanza istituzionale veramente di servizio e non opportunista e fagocitante, un pezzetto di democrazia può camminare su gambe più forti: in Valsusa, nel palazzo e dovunque in Italia…

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Ora o mai più

A diciassette anni mi presentai al congresso nazionale di Lotta continua convinta ad iscrivermi. Da un po’ vivevo le mie idee anarchiche come una specie di lusso da sacrificare per un cambiamento della società che sentivo troppo urgente. Mi ero studiata le Tesi e avevo anche rivestito la copertina con una carta bella robusta. Ero pronta ma Lotta continua no, addirittura si sciolse seduta stante. Tornai a casa sconsolata, poi elaborai quell’appuntamento mancato in una specie di personale destino movimentista, che da allora non mi ha più abbandonato. Come dice qualcuno che mi ha fatto il ritratto in un libro “dio solo sa quante n’ha fatte da giovane: pestifera”. E anche da dopogiovane, per la verità, se impegnarsi per l’uguaglianza, l’ambiente e la democrazia dal basso si possa definire pestifero.
Mentre esplodeva la prima Tangentopoli, l’esperienza in una lista civica mi ha insegnato che si possono mescolare sensibilità anche diverse per finalità comuni, come la difesa dei cittadini da una discarica insalubre o dalla possibile perdita di un servizio. E anche, naturalmente, dalla corruzione politica, che però allora non si arginò. Prova ne è tutto il dopo, con un sistema corrosivo che si è rafforzato e ramificato ovunque, distruggendo un intero paese e ogni minima aspirazione a vivere dignitosamente.
Oggi, dopo quasi quarant’anni in cui ne ho viste e passate di tutti i colori, voglio credere che davvero stia succedendo qualcosa di nuovo. E sono qui che mi dico: ora o mai più, temendo tantissimo quel “mai più”.
La coazione a dividersi sembra una condanna dei gruppi politici, per distinguo a volte irrilevanti e per incapacità a guardare oltre questioni contingenti, che ingigantiscono fino a scoppiare. Al netto degli interessi (di potere, carriera, soldi e visibilità), si sono divisi e se le sono anche date di santa ragione minuscoli gruppi per motivi puramente ideali. Così si sono suicidati insieme agli ideali stessi che cercavano di difendere, da qualche nemico immaginario o da chissà quante sfumature di comunismo o libertarismo che, di sfumatura in sfumatura, finiva per sfumare del tutto.
Servirebbero scuole che insegnino ad unirsi, salvaguardando le differenze e gli obiettivi da raggiungere. Questo intanto per il vivere comune, figurarsi per la politica. Ora più che mai soprattutto i 5 Stelle ne avrebbero bisogno: per raggiungere i loro obiettivi; per dimostrare che si può essere, anche in questo, differenti dagli altri; per resistere a una pressione del sistema altrimenti insostenibile. E per quell’ora o mai più che in tanti ci stiamo ripetendo…

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I generosi e i “tuttomio”

Eletti i presidenti di Camera e Senato, media e partiti su buttano sulla notizia più golosa: una manciata di voti provenienti dal Movimento 5 Stelle determinante per l’elezione di Grasso anziché Schifani, segno di una spaccatura nel Movimento. Parlano di spaccatura ma non parlano della voragine aperta dal Movimento nelle logiche di apparato. Senza quella voragine probabilmente né la Boldrini né Grasso oggi sarebbero presidenti di Camera e Senato, e nemmeno ci sarebbe un parziale rinnovamento negli eletti alla Camera e al Senato.
Ai 5 Stelle si deve doppia gratitudine: per le campagne sostenute in questi anni, in grande e sbeffeggiata solitudine; per la limpidezza con cui sono entrati nel palazzo, senza cedere a tatticismi, scambi e ricatti che hanno reso la democrazia una specie di moribonda.
La Boldrini e il partito che la esprime (poco più di un tre per cento alle elezioni, ben sotto la soglia di sbarramento) dovrebbero portare un cero grande così ai 5 Stelle, mentre lo stanno portando a Bersani: vedremo cosa potrà farne. E, ancor di più, Grasso e il partito che lo esprime sono debitori ai 5 Stelle perché, con la loro chiusura a qualsiasi compromesso con altre forze politiche (altri al loro posto avrebbero fatto altrettanto? chiedete a uno a caso, per esempio a D’Alema) e un pizzico di ulteriore, disobbediente generosità, hanno arginato il candidato della destra.
A me piacciono parlamentari così, fuori dagli schemi, da tattiche micidiali e anche da lunghe rappresentanze in istituzioni, per sola convenienza oggi definite “società civile”. Ma soprattutto generosi, al punto tale da non rendersene nemmeno conto. Non cambierei nemmeno uno di loro con chi oggi, ancora una volta, ha fatto “tuttomio”: con la superbia di sempre, nonostante le sonore sconfitte, nella società e alla prova elettorale. La rappresentanza di Camera e Senato a un’unica parte politica, rappresentativa di appena un quarto degli elettori, è uno schiaffone a quella stessa democrazia parlamentare di cui ci si proclama paladini a parole. Anche in spregio a esercizi di democrazia diretta, così preziosi in questa fase di delicata transizione verso nuove, possibili forme. Un altro quarto di elettori ha consegnato questa grande speranza a una formazione totalmente nuova, proprio per evitare che la forma, come spesso accade, distruggesse i contenuti. Non si può tenere all’angolo un quarto di cittadini che di essere così generosi, vista la gravità dei tempi, potrebbero anche stancarsi.
Dell’altro quarto, pur rappresentato in Parlamento e davanti ai palazzi di Giustizia, in palesi atti eversivi di una gravità senza precedenti, c’è poco da dire: si tratta di una brutta ferita che sanguina pus da decenni, sottovalutata e anzi peggiorata con il concorso di una falsa opposizione e di un Presidente della Repubblica sconcertante fino all’ultimo. Anche per questo si spera nella limpidezza, nello stile e nei fatti, dei nuovi arrivati. Per i quali la strada sarà tutta in salita, come già si è dimostrato in questi primi giorni di legislatura.
Ma meglio in salita che schiavi per una poltrona: solo per quella salita, se mai ci sarà, passerà il vero cambiamento.

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