Strozzini d’Europa

Nell’epilogo che Marco Revelli inserisce alla fine del suo ultimo libro I demoni del potere vengono riprese alcune notizie riguardanti la crisi greca e le conseguenze del debito accumulato e gestito da una politica nazionale ed europea che scaricano su una popolazione in gran parte incolpevole sacrifici insostenibili. Revelli cita l’acquisto da parte di un principe del Qatar di Oxia, bellissima isola vicina ad Itaca, per farne un resort; l’intenzione della Finlandia, a fronte di nuovi prestiti alla Grecia, di richiederne in garanzia l’Acropoli, il Partenone e alcune isole; l’affitto, da parte del Ministero dei beni culturali greco, dei luoghi-simbolo del paese da utilizzare come set cine-fotografici. Tanto per fare un esempio, pare che in base a un tariffario da saldi di fine stagione si possa affittare Delfi a soli milleduecento euro al giorno. Inoltre, la propensione alla trattativa e al ribasso rendono l’affare ancora più interessante. Perché di questo in sostanza si tratta, di affari da fare in un paese in svendita.
Ci si domanda se sia minimamente accettabile la svendita di un paese, di pezzi di territorio e natura, di storia e cultura. O ancor prima se ne sia accettabile la vendita, perché se le obiezioni riguardano la sola sottostima, a monte permane il fenomeno gravissimo dell’alienazione e dello sfruttamento privato di beni pubblici o d’interesse pubblico, patrimonio di un’intera collettività.
Revelli, per contraltare al ruolo attivo della Germania nell’esazione odiosa nei confronti dei greci, ricorda stragi naziste di civili ellenici nemmeno meritevoli di risarcimento a detta dello stesso tribunale dell’Aja. Del resto, ce la vedreste la Merkel, che addirittura ha imposto alla Grecia il ricatto dell’acquisto di armamenti da pagare sull’unghia alla Thyssenkrupp (per intenderci, la stessa responsabile della morte di alcuni operai nel rogo dello stabilimento di Torino), mettere mano ai soldi dei tedeschi per risarcire l’uccisione di qualche popolano greco, inghiottito dalla storia e poi dalla sua rimozione? E comunque, mai una morte potrà essere risarcita né mai potrà diventare oggetto di scambio per ridurre parte di un debito, tra l’altro di dubbia legittimità.
E’ sulla legittimità del debito che ha travolto molti dei suoi paesi che un’Europa civile dovrebbe innanzitutto interrogarsi, favorendo il coinvolgimento democratico delle popolazioni sovrane in un percorso di analisi e riconoscimento della parte legittima e sostenibile. E sull’individuazione delle vie d’uscita possibili, innanzitutto da una crisi di sistema che si continua a negare e dalla quale invece ci si può salvare soltanto aprendo strade nuove di sviluppo e di partecipazione collettiva. Altrimenti, a quale Europa si riferiscono le nostre campagne elettorali? A quella dei falchi o a quella degli sparvieri? A quella di sedicenti progressisti che vanno in vacanza in Grecia a prezzi stracciatissimi e che, se potessero, si comprerebbero anche un’isola o almeno un pezzettino di Partenone da mostrare come souvenir agli amici in qualche cenetta vintage? A quella di chi nasconde vecchi scalpi di guerra sotto il materasso, insieme ai soldi che raccoglie da questa guerra terribile e senza spari? Perché l’importante per ora non è sparare ma far comprare armi in rimanenza, tanto a uccidere ci pensa la crisi.
Il fatto è che senza solidarietà sociale e spirito transnazionale, che superino insieme i confini ridefiniti ogni volta dai soli interessi politico-finanziari, non andremo lontano né nei nostri viaggi personali né in quelli collettivi.
Tanto per cominciare, torniamo a chiamare le cose con il loro vero nome. Come lo chiamereste chi presta a tassi usurai, si appropria forzosamente di beni o induce ad acquisti onerosi, approfittando di chi è in grande difficoltà? Io lo chiamerei strozzino, per amor di chiarezza anche nelle responsabilità, ben più gravi se riguardano alte cariche istituzionali e non un “compro oro” qualsiasi.

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La vita in una camera a mano

Visti uno dopo l’altro tre film dei fratelli Dardenne (Rosetta, Il figlio e L’enfant) mi è tornato l’amore per la camera a mano che avevo a vent’anni. Allora si parlava di steadicam (sistema che permetteva all’operatore di portare la macchina da presa con il corpo, ammortizzando i propri movimenti per garantire – così pensavo, e la cosa non mi convinceva – un maggior livello di finzione) ma anche di macchine leggerissime da usare direttamente a mano. Di queste credo di aver sentito discutere per la prima volta in riferimento a Herzog e alla sua esperienza molto particolare di documentario (es. La soufrière), così importante anche per alcuni suoi film degli anni successivi.
La macchina a mano, insieme alla “grana grossa” della presa diretta, mi sembravano necessari per portare la realtà dentro il cinema, impedendole di svaporare attraverso qualche trucco tecnico-estetico che ne riducesse l’impatto e la bellezza. In seguito, com’è naturale che sia, la mia esperienza del linguaggio cinematografico si è un po’ ampliata. Nonostante questo, la rigorosa dichiarazione d’amore per la realtà che i Dardenne sparano dritta con una camera a mano mi convince ancora molto.
La loro è una realtà estrema e delicata, intatta e anche per questo aperta alla possibilità umana di cambiamento e riscatto, che trova soltanto dentro se stessa i modi per darsi e insieme raccontarsi, comunicandoci anche una capacità di speranza che diventa tutt’uno con quella di chi fa il film. Perché se è ancora possibile braccarla con l’implacabilità di un divenire altro dalla grande finzione del mercato (e dagli infiniti giochi di specchi che graduavano il lavoro cinematografico dal documentario al film, ora appiattiti in un’unica visione della vita come falso, purtroppo per sua stessa natura), se è ancora possibile stanare un sentimento vero, anche solo in abbozzo, dentro la rappresentazione di una periferia urbana ormai al suo ultimo atto, allora vuol dire che un piccolo grumo di coscienza, o di inizio di coscienza, può nascondersi ovunque, in noi e intorno a noi. Basta solo cercarlo e ricominciare da lì: questo ci dicono i Dardenne, con una camera a mano che morde la vita come un cane randagio, senza uno straccio di effetti o di musica, per farsi sentire meglio.

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Stanza numero diciassette

Dura la disciplina che ignora aspettative
e ti espone alienato dopo un’altra nascita,
col timore del freddo e del vento
dentro maglie di ferro rinforzate
da correzioni e riserve
ma verrà un’esplosione dal fondo
a dilaniare ogni trama, a scalmanarti
sulla scia della strada
qualche passo intanto s’aggiunge
lo contempli nel dopo, nonostante (1996)

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