Taranto

Taranto è parte della mia infanzia, mio padre vi ha lavorato per anni. A volte andava da solo, riempiendo la distanza da casa con lettere che scriveva con una Olivetti portatile, a volte caricava in macchina mia madre, me e mia sorella e ci portava con sé per periodi anche lunghi. Ricordo che si partiva a notte fonda e che il viaggio, una specie di culla, mi manteneva nel sonno fino all’arrivo. Soltanto allora aprivo gli occhi su un grande porto, mentre intorno si apriva un’alba colorata e silenziosa.
Vivevamo in un piccolo albergo vicino al mare, con le finestre su un cielo di un azzurro irripetibile. I gabbiani che gridavano la contentezza di essere lì, in quel disegno di mare e terra così vero e appartato, ci tenevano compagnia.
Via via la nostalgia di casa si alleggeriva, e ci si abituava a quel secondo luogo fatto di stanze e di ospiti, a volte commessi viaggiatori che guardavano la famiglia al seguito con un po’ di tristezza. Generosissimi con noi bambine, ci portavano qualche sorpresa, per natale addirittura un grande orso di pelouche che ancora conserviamo.
A volte mio padre ci accompagnava fuori, e quelle erano le ore più belle: gli scorci, le viste, i vicoli profumati di pesce fresco e fritto, la visione straordinaria del ponte girevole che si apriva per far passare le navi. Intanto si costruiva l’Italsider (oggi Ilva), enorme acciaieria inaugurata nel 1965, anno della mia prima elementare e della fine dei miei viaggi a Taranto.
Da grande ho conosciuto altri impianti e rimpianti, vivendo prima a pochi chilometri da una raffineria micidiale (di nuovo sul mare, a un passo da ferrovia e aeroporto, in un’area densamente abitata) e poi in una città di acciaierie tedesche, tristemente famose per un rogo omicida e per un processo ai padroni arrivato fino in fondo. Chissà come: forse perché i corpi bruciati sono prove inconfutabili, mentre per l’Ilva di Taranto si tratta “soltanto” di inquinamento e di malattie connesse, anche se mortali; forse perchè i padroni delle acciaierie ThyssenKrupp non parlano italiano mentre quelli dell’Ilva, i Riva, lo parlano anche troppo bene. Fatto sta che di fronte all’inquinamento disastroso di Taranto per decenni si è fatto finta di nulla, replicando il solito copione agghiacciante del lavoro fino alla morte. Un risanamento vero e una radicale riconversione produttiva, magari sostenuta pubblicamente, sono sempre state liquidate come due bestemmie in una, mentre l’unico sostegno è andato ai padroni, mettendo per loro pezza su pezza. Così si è coperto ciò che alla fine soltanto la magistratura ha reso evidente in tutta la sua cruda realtà, emettendo provvedimenti (arresti e stop alla produzione) contro i quali Governo e Quirinale, non si sa bene in virtù di quali loro prerogative costituzionali, stanno già confezionando l’ennesimo rattoppo.
Altro capitolo doloroso è quello del tornado che si è scatenato giorni fa proprio sull’Ilva. Rimanendo razionali, e dunque respingendo l’ipotesi di un dio vendicatore che si è stancato di noi, si può pensare che l’inquinamento produca cambiamenti climatici e che il cerchio a volte si chiuda proprio dove si è aperto, cioè sulla fonte inquinante che diventa essa stessa bersaglio di fenomeni metereologici nuovi e preoccupanti. Insieme agli operai, naturalmente, che entrati nello stabilimento per reagire al blocco del lavoro imposto dai Riva per ritorsione e pressione nei confronti della magistratura, si sono ritrovati addosso la furia della natura che ha trascinato via ciò che ha potuto. Un giovane di 29 anni, Francesco Zaccaria, stava lavorando su una gru che si è spezzata ed è finito in mare insieme alla cabina. Il suo corpo è stato recuperato dopo molte ore.
Nel frattempo andava in scena lo show delle primarie di un partito, di un cinismo intollerabile per i suoi toni stridenti con questa tragedia.
A proposito, soltanto due candidati hanno avuto l’ardire di nominare la parola “sinistra” e in riferimento, pare, a un suo certo profumo: uno è il governatore della Puglia (chissà con quale efficacia si sarà occupato dei problemi dell’Ilva) e l’altro il segretario (chissà perché non parla di un presunto finanziamento dei Riva proprio al suo partito).
Una volta essere di sinistra significava seguire il puzzo di sofferenza e di morte per sostenere i più deboli, oggi basta coprirlo di profumo perché non si senta.

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Voti e vuoti

Ballano sopra le loro voragini
felici come bambini, giocano
alle elezioni nei programmi tv

comunque vada sarà un successo
di figurine scambiate e altre
convenienze, di ex voto in fila
e falsi sorrisi per la stampa

nel vuoto di sempre,
voti da rivendere a peso

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Trovatemene uno

Trovatemene uno in Italia – regista, scrittore, artista o cosiddetto intellettuale (cioè appartenente a una categoria discutibile, eppure sempre più ampia e dipendente da sistemi di potere, poltrone e riconoscimenti, da cordate partitiche e appelli sottoscritti per conclamata aristocrazia) che rifiuti un premio in nome della propria coerenza.
Spine dorsali così dritte non se ne trovano, piuttosto si sa prima come si deve realizzare un’opera che faccia contenti finanziatori, critici e mercato, e si segue fino in fondo la scia maleodorante nella speranza di fare bingo. E se non lo si fa ci si offende pure, perché un autore politicamente corretto andrebbe per forza di cose premiato, senza considerare che la schiera dei politicamente corretti è così fitta che i premi non bastano più.
Trovatemene uno in Italia capace di un no forte e chiaro quando l’establishment ti chiama su un palco per consegnarti un minuto di gloria: per me non lo troverete.
E infatti capita guarda caso con un regista non italiano, Ken Loach, che a questo punto andrebbe ringraziato non soltanto per i film belli e coraggiosi che ha fatto, ma anche per un gesto esplicito e motivato che dovrebbe ricordarci, prima di essere liquidato in fretta da dichiarazioni superficiali e di convenienza, di quale pasta dovrebbe essere un uomo e un artista.

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