Le loro deviazioni

Tre giorni fa in numerose città europee si è svolta una manifestazione contro la gestione di una crisi economico-finanziaria che dovunque segue lo stesso copione: scelte verticistiche a esclusiva difesa dei poteri forti, smantellamento dello stato sociale, repressione. In Italia la protesta si è diffusa in molte città. I disordini di piccoli gruppi in parte appartengono alle solite infiltrazioni e in parte a un’esasperazione inascoltata e spesso provocata, che a quel punto prende le forme che può.
L’esasperazione è conseguenza di una violenza sterminata che lo stato stesso esercita sempre di più e in tutte le sue forme: subdole ed esplicite, emotive e fisiche. Non si possono mettere sullo stesso piano le reazioni delle vittime (a cui si sta togliendo tutto: salute, lavoro, cultura, e soprattutto futuro) e l’operato di responsabili infinitamente più forti, che utilizzano tutti gli strumenti che hanno, dall’informazione all’agibilità politica alle leggi, per portare a compimento un disegno preciso di disuguaglianza e di disumanizzazione senza precedenti. Quando ogni altro spazio viene negato, si torna nelle piazze per difendere le proprie esistenze, con atti necessari per sfuggire all’annichilimento, con tentativi di pura sopravvivenza, con la necessità di sentirsi almeno insieme, mentre si sta facendo di tutto per dividerci.
E’ della violenza che si scatena sulle piazze che invece bisogna parlare, perché vuole ridurre a spaventata subordinazione chiunque voglia alzare gli occhi da terra per guardare e giudicare quello che gli sta accadendo. Bisogna parlare delle forze dell’ordine che manganellano a freddo, alle spalle e in faccia, che attaccano spezzoni di corteo imbottigliati, che fanno retate a strascico, che in perfetta continuità con il passato si nascondono dietro a ordini indicibili e impunità intollerabili in cambio di stipendi e carriere fatte sul sangue degli altri.
Si fa un po’ fatica a immaginare oggi un celerino che si toglie il casco e abbraccia un manifestante, ma forse è soltanto questione di tempo: forse lo farà quando rimarrà anche lui senza lavoro, quando suo figlio si suiciderà, quando non avrà i soldi per curare sua moglie.
Nel frattempo dobbiamo parlare dei lacrimogeni lanciati sui manifestanti (chissà da chi!) dai piani alti del Ministero della Giustizia. Una volta dai palazzacci volavano giù gli anarchici, spalancavano le finestre e si buttavano tra i tentativi disperati dei poliziotti di salvarli. Ma erano altri tempi, più umani. Oggi tutto è più tecnico, e le traiettorie di fumogeni e pallottole sparati dalle forze dell’ordine prendono rimbalzi imprevisti (per colpa, ad esempio, di qualche sasso dispettoso che devia un colpo di pistola su Carlo Giuliani e lo uccide).
Le forze dell’ordine ce le spiegano così, le loro deviazioni. Le loro deviazioni, appunto: è di quelle che dobbiamo parlare.

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Altri luoghi

Chi pensa che le imminenti elezioni politiche italiane daranno ai cittadini la possibilità di cancellare il sistema corrotto e antidemocratico dei partiti e ricostruire il paese sulle loro macerie è un illuso. Quel sistema ancora controlla o gestisce quasi tutto: informazione, amministrazioni pubbliche e strutture parallele, accesso al lavoro e voti, denaro pubblico e privato.
Anche l’attuale governo di cosiddetti tecnici, nato non dalla volontà popolare ma da quella dei massimi vertici (a tutela dei poteri economico-finanziari in balìa di una crisi autoprodotta), finge un’autonomia dai partiti che non ha ma che mostra di avere soltanto quando ai partiti conviene.
Un mostro concepito in laboratorio ci sta accompagnando, bontà sua, alle elezioni, mentre quello stesso laboratorio sta tentando di modificare la legge elettorale. L’obiettivo è impedire, come da più parti dichiarato senza alcun pudore, che un movimento politico in crescita (il 5 Stelle) travolga i palazzi. Magari tutto questo è anche incostituzionale, ma se la Costituzione è un intralcio per loro, questi signori cosa fanno? O la riscrivono o la mettono in un cassetto, e tra le due ipotesi la seconda è quasi un sollievo.
In un paese normale una legge elettorale così non sarebbe nemmeno esistita, tanto che per la sua indecenza la chiamano “porcellum” (ed è una fortuna che i maialini ignorino sia le leggi sia il latino).
In un paese un po’ meno normale una legge così sarebbe stata modificata al più presto.
In un paese per niente normale si cerca di riscriverla a pochi mesi dalle elezioni, per garantirsi un premio di maggioranza scippandolo agli avversari.
E chi si sta dichiarando, pur essendo partito, contrario a questo disegno, lo sta facendo esclusivamente per convenienza ben calcolata.
L’Italia dei salotti e dei salottini (non soltanto televisivi) funziona così, vede un fascismo strisciante in qualsiasi tentativo di cambiamento mentre rimuove le proprie pulsioni antidemocratiche, quelle stesse che negli anni hanno distrutto il tessuto civilmente più sano e mentalmente più libero di questo paese ingrassando il vitello berlusconiano e tutti gli altri vitellini attorno. Ma si sa che ammettere onestamente le proprie responsabilità segnerebbe la fine della propria carriera, remunerazione compresa, e si continua a far finta di niente.
Non sarà una croce messa in una scheda a salvarci dal vuoto democratico (nel quale, peraltro, non da ora siamo immersi fino al collo), e ciò indipendentemente dalla legge elettorale che ci imporranno. La democrazia per reinventarsi ha bisogno di altri luoghi, liberi dal passato e legati ai bisogni quotidiani accresciuti dalla crisi, dove si ritrovano gruppi di volontariato e di partecipazione sociale e anche vari movimenti. Dalla strada alla rete e viceversa, lontano da salotti e palazzi: la transizione verso una democrazia nuova può passare soltanto da lì.

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Il potere del debito

La gestione pubblica del debito sta pesando sulle nostre vite e ancor più peserà in futuro se non troveremo con urgenza soluzioni differenti da quelle che ci stanno calando irresponsabilmente dall’alto. A questo proposito può essere utile riprendersi Debitocrazia, libro di Damien Millet ed Éric Toussaint uscito in Italia nel 2011. Gli autori vi analizzano la crisi europea e, con riferimento all’esperienza ventennale del Cadtm (Comitato per l’annullamento del debito al terzo mondo) e ai suoi risultati positivi, propongono come via d’uscita la sospensione del pagamento del debito e l’istituzione di una Commisione di audit pubblico. Ciò per definirne legittimità o illegittimità e, in quest’ultimo caso, l’annullamento, facendo riferimento a precise norme del diritto nazionale e internazionale per ottenerli in modo legale.
Il libro è anche un atto d’accusa nei confronti dei vari governi, della Commissione europea, della Banca centrale europea e del Fondo monetario internazionale, complici delle istituzioni finanziarie che, dopo aver prodotto la crisi, si arricchiscono sui debiti degli stati. E contro i piani di austerità, che producono conseguenze negative a catena: prolungamento della crisi; pressione delle società finanziarie e creditrici sulle popolazioni; crescità di povertà e precarietà; riduzione della protezione sociale; aumento degli squilibri e rafforzamento delle frange di estrema destra; risposta repressiva alle proteste sociali e scarsa garanzia dei diritti umani; mancato rispetto degli obblighi internazionali di aiuto allo sviluppo.
Vi si sostiene che la riduzione dei deficit pubblici andrebbe perseguita non con il taglio alle spese sociali, come si sta facendo, ma con l’aumento delle entrate fiscali (colpendo i grandi evasori e tassando transazioni finanziarie, patrimonio e rendite degli strati più ricchi delle popolazioni) e la drastica riduzione di alcune spese (in particolare quelle militari, e quelle inutili socialmente o dannose per l’ambiente). Accanto a ciò, sarebbero necessarie alcune misure concrete fra cui: il trasferimento delle banche al settore pubblico, sotto diretto controllo dei cittadini; la socializzazione di imprese e servizi privatizzati negli ultimi trent’anni; la riduzione del tempo di lavoro insieme alla rivalutazione di salari e pensioni; una differente ripartizione delle ricchezze come migliore risposta alla crisi.
In sostanza, una crisi frutto della logica capitalistica richiederebbe, per il suo superamento, innanzitutto il superamento di tale logica attraverso un cambiamento radicale della società, con il superamento del produttivismo e di ogni forma di oppressione e l’affermazione dell’agire ecologico, della giustizia sociale e dei beni comuni.
Come il Cadtm, altri movimenti un po’ dovunque in Europa stanno elaborando analisi e modalità di intervento che convergono su finalità comuni. Il loro coordinamento e il radicamento nei territori potrebbe aprire una nuova strada per una minima possibilità di futuro.
Il libro, rispetto all’edizione originale nel 2010, contiene un capitolo aggiunto a cura di Salvatore Cannavò, che aggiorna sulla grave situazione dell’Italia, simile ad altre in Europa e non solo. Ciò a conferma, se ce ne fosse bisogno, che il capitalismo funziona più o meno nello stesso modo sempre e dovunque.
A questo proposito può essere illuminante andarsi a leggere, nel capitolo precedente, alcuni passi del Capitale di Marx dedicati ai fenomeni finanziari. Sembrano scritti oggi, senz’altro per la capacità di previsione dell’autore ma anche e soprattutto per l’ottusità di chi si ostina a sostenere nei secoli un sistema di sviluppo imperfetto e iniquo, condannato a ripetere i suoi errori fino al limite dell’autodistruzione, trasferendone gli oneri sulle spalle degli altri.

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