Sinistro col trucco

Usare le parole con la precisione di un calcolatore sarà anche impossibile, ma sforzarsi di trovare ogni volta quelle più giuste è segno di correttezza con se stessi e con gli altri, specie se per privilegio sociale si dispone di un ricco vocabolario e di un ruolo pubblico che amplifica e diffonde la propria comunicazione.
Chi usa la parola fascismo senza precisione, riferendola a persone e cose lontane anni luce anche dal suo più vago alone semantico, può essere causa e anche sintomo di qualcosa di peggio. Innanzitutto può rafforzare sia un’incapacità già diffusa di riconoscere autentici rigurgiti del peggiore passato, sia una tendenza a sottovalutarli e a sdoganarli. Inoltre, definendo fascista una critica diretta, può rivelare una pulsione simile a quella condannata.
Perché un segretario di partito attribuisce il termine fascista a personaggi e contenuti della rete e del paese reale tutt’altro che tali, quando non spende mai una parola sui fascisti veri?
Mi viene in mente Forza nuova, che proprio dove vivo distribuisce pane al popolo così come aggredisce qualche sparuto comunista che passa per strada. Oppure Casa Pound e l’Alba Dorata di una Grecia vicina, e anche tanti ex fascisti per loro stessa orgogliosa ammissione, da decenni nelle poltrone più alte delle istituzioni statali e locali.
Poi c’è il revisionismo di Violante e il silenzio assenso di tanti suoi colleghi. Ci sono la legittimazione, il riconoscimento e le garanzie offerte alle aggressività leghiste, ai monopoli forzisti e a una schiera di reazionari sempre in ballo tra destra, centro e anche sinistra, in una palude indistinta di interessi e alleanze prive di valori e di certezze democratiche.
Chi è davvero di sinistra sussulta al solo sentire la parola fascista e la ritiene la peggiore offesa che si possa ricevere. Evidentemente chi la tira fuori dal suo vocabolario con tutta la leggerezza con cui si estrarrebbe un coniglio dal cilindro è un prestigiatore, un personaggio sinistro. Un sinistro col trucco…

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Stanza numero dodici

Non avere progetti, neanche
una risalita alla sorgente dell’Ambro
dopo un ricovero breve

ma non è malattia
quel languore che la nonna
scaccia con siringhe bollite
una volta sposato
non ci penserai più

mangi gli gnocchi al semolino
ripassati nel burro
mentre il giorno è più chiaro
e il bosco libero dal malefizio

non sarà l’ombra a chiuderti
i giorni, con un laccio
prosegui e poi strattoni

non avere progetti, neanche
un taglio di legna
o un incontro di spalle,
né semina né raccolto (1996)

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Rileggendo Langer

“Come possono gli stessi operai chiedere di continuare una produzione o un’attività nociva a loro stessi e agli abitanti della loro città, ai loro figli, alla gente? Chi meglio dei lavoratori potrebbe informare e mettere in guardia quando una produzione è pericolosa per la salute di chi ci lavora, di chi sta intorno e di chi consuma il prodotto? Quale sfida per il movimento ecologista uscire dal tunnel della chimica pesante, delle produzioni energetiche ad alto rischio e alto inquinamento, delle megaopere pubbliche, della stradomania, della dittatura dell’automobile… L’idea di un globale disegno di risanamento del lavoro e anche di una grande cassa integrazione verde si fa sempre più strada. Vorrà dire prendere per le corna il toro dell’alienazione e lavorare per il disinquinamento non solo dell’ambiente ma anche della vita di milioni di persone, dentro e fuori le fabbriche, gli uffici, i servizi, le campagne”. Questo scriveva Alex Langer nel 1983: parole di utopia e insieme di straordinario realismo, per la sopravvivenza di tutti, operai e padroni accomunati dallo stesso rischio ambientale.

Quello che sta succedendo all’Ilva di Taranto mostra invece la nostra incapacità di conciliare ambiente, salute e lavoro e di integrare contenuti ecologici in un’ampia visione politica e sindacale. In decenni di disastri ambientali e di incidenti sul lavoro nessuno c’è riuscito, nemmeno chi ha tentato di costruire ponti tra culture e pratiche tra loro lontane, e men che meno chi ha ridotto l’ambientalismo a una corrente di partito (o a “quota verde”) oppure a una bella lettera “E”, centrale dentro una sigla anch’essa di partito.

E così oggi ci ritroviamo, al di là di pure operazioni di marketing elettorale, da una parte un ambientalismo ritenuto di lusso (ora anche di più, vista la gravità della crisi) e dall’altra la strana alleanza tra lavoratori e padroni, in difesa di un lavoro anche a costo della vita. Un abbraccio mortale che, con qualche raro distinguo,  politica e sindacati addirittura incoraggiano, mentre dovrebbero agire come forze di interposizione per salvare le vittime e pure i carnefici. Ma come potrebbero, se il paese è ridotto a una landa desolata in cui scorrazzano predoni dai ruoli ormai indistinguibili (che siano politici, tecnici, imprenditori o finanzieri non fa più alcuna differenza)?

In una situazione simile è automatico che finisca sui magistrati tutta la responsabilità di decisioni (come lo stop dato all’Ilva, dopo anni di inerzia nonostante le morti) vissute dai cittadini come atti estremi di salvezza, e dai predoni come insidiosi sconfinamenti tra i propri inconfessabili interessi.

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