Stanza numero undici

Torna da una vacanza lunga,
nella mano febbrile una castagna
è selvatica – dice –
è una minaccia
un disordine sceso
nelle acque cupe del pozzo
una cenere d’ossa
sparsa chissà dove

non si sa altro
dalla sua partenza,
era un albero vecchio uscito
dalle specie
era un frutto caduto con
un tonfo sordo sulla
superficie oleosa

vedi che sono io, diceva
anche con gli occhi fondi
per le scariche prese da legato
anche con le parole insane
dal ricamo prezioso, logorrea
d’amore

ieri l’ho visto migrare
in uno stormo chiuso
forzare l’aria sopra la terra
fino alla nuova sponda

poi ha rotto le fila,
disperdendo anche gli altri (1996)

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Don Ciccio e i colpettini di stato

Se si dovesse dipingere con due pennellate la repubblica italiana, basterebbero l’immagine di don Ciccio e quella dei “colpettini di stato” (quest’ultima definizione è di Beppe Grillo). Don Ciccio è il faccendiere, quello che procura e smista, che dà e toglie, che ricatta e blandisce, che minaccia, trama e fa pressione (su chi esercita la giustizia, ad esempio, e più in generale su chi cerca di sopravvivere onestamente in ogni settore della vita pubblica). I colpettini di stato sono di più specie: azioni concrete che forzano il dettato costituzionale e il normale funzionamento delle istituzioni; alchimie legislative costruite a tavolino per la stessa finalità; stili di comportamento che svuotano da dentro lo stato, senza intervenire sulla sua struttura. Queste specie operano separatamente oppure in forma mista. Quello che conta è la loro organica fedeltà a Don Ciccio, archetipo protomafioso che ha diffuso democraticamente il suo verbo presso una schiera numerosissima di servitori e serviti, pronti a diventarne strumento attivo o passivo a seconda della contingenza. Don Ciccio è più della mafia, perche rappresenta un costume molto diffuso che alla mafia offre radici e alimento necessari. Don Ciccio e i colpettini di stato vanno spesso a braccetto, si riconoscono perfettamente nella lucida carcassa della repubblica che hanno spolpato senza alcun imbarazzo. Anzi, l’esposizione retorica dei resti è parte di un rituale che va ripetuto e conservato perché i cittadini si impiglino lì e non guardino oltre. Il calendario italiano scandisce anniversari a non finire di stragi e omicidi ma tutto finisce lì, nella commemorazione che si ripete con i toni bassi di una retorica di regime pronta a coprire ogni verità. Oltre non si può andare, né alzando la voce né tentando quell’ennesimo processo allo stato che nei decenni ha seminato molte morti, clamorose oppure misteriose, ma sempre normalizzanti come vuole Don Ciccio.

Se alte cariche dello stato aggrediscono la magistratura (da Palermo all’Ilva di Taranto, due facce della stessa medaglia) e la stampa a suo modo ne parla, non bisogna dimenticare che certi fenomeni sono soltanto la punta di un iceberg enorme, lasciata emergere chissà per quale congiuntura o strumentalità nascosta. Il vero problema è quell’iceberg, di fronte al quale la calma piatta di giornali e partiti, quando non il sostegno di posizioni impresentabili, prende la forma sconcertante di una visione allucinata e distorta, lontana dalla realtà. Una lettura psicologica di personalità e comportamenti scissi sembrerà azzardata, ma il tarlo del potere che alberga in tanti personaggi pubblici andrebbe meglio indagato, non tanto per i danni che produce individualmente quanto per la sua incompatibilità con il bene collettivo.

Fuor di psicologia, Don Ciccio è lo stato: data questa condizione, anche soltanto avvicinarsi a quell’iceberg è impossibile.

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Stanza numero dieci

Tutto consuma nella sua cucina,
cibo scrittura
e il mito dei corpi ragazzi
pelle d’altri colori
e occhi lontani

ama comunque, nelle sere
coperte dalle stelle
di campagna e deserto
da lì al Mediterraneo

a teatro è una voce di gola
tra microfono
e paramenti rossi,
separata da sé
e dalla strada autunnale

gorgo di foglie
che crepita come legno,
dove una mano cerca
l’anima dura delle ghiande
e la nasconde nel pugno,
perla selvaggia
o intimo scherzo di natura (1996)

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