Se il groove non si fonde

Immagine anteprima YouTubeIeri sera concerto jazz in mezzo alla natura, tra le quinte spettacolari della gola del Furlo, con una luna seminascosta dagli alberi che si confondeva con le luci di scena e un vento caldo che portava il sud fino lì, forse per ricordare da dove viene quello straordinario mescolìo di suoni che si sperimenta da cent’anni: un misto di testa e cuore, tecnica e fisicità, improvvisazione e ricerca. Insieme a Michael Stewart (tromba),  Marcus Machado (chitarra elettrica), Theo Hill (tastiere) e Rocky Bryant (batteria), il musicista di maggior richiamo era Victor Bailey, bassista dei  Weather Report negli anni Ottanta e collaboratore di tanti artisti importanti (da Sonny Rollins alla Makeba, ma anche David Gilmore e Sting, Madonna e Lady Gaga).

Tutti bravi solisti, dal trombettista di grande esperienza al tastierista brillante nei brani più tirati, fino ai più giovani, capaci di tanto lavoro di spalla necessario ai virtuosismi più maturi. E di Bailey in particolare, che usa il basso elettrico come una fonte di ricchezza musicale addirittura autonoma, forte di uso rivoluzionato dello strumento che viene dagli anni Settanta e che porta la firma dell’indimenticabile Jaco Pastorius.

Essere stato bassista dei Weather Report dopo Pastorius non sarà stato facile, come oggi non è facile riempire il vuoto lasciato da quella straordinaria macchina musicale pensante che è stato Joe Zawinul fino all’ultimo concerto. E così ieri sera ho provato tristezza: un po’ pensando che non basta mettere insieme dei bravi solisti per fare un buon concerto (che significa tessere con varie tracce musicali una tela complessa, originale e soprattutto unitaria); un po’ dispiacendomi per un brutto bis, concesso dal solo Bailey con un accenno a Birdland.

Sarebbe stato mille volte meglio richiamare tutto il gruppo sul palco per una session finale differente e collettiva che liberasse dai fantasmi del passato almeno gli spettatori più anziani. Come me, per esempio, che appena tornata a casa ho dovuto riascoltare i Weather Report degli anni Settanta. Per nostalgia? No, per voglia di  fusion inappagata.

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La vita orizzontale

Trovarsi sulla spiaggia della propria infanzia con davanti due piani differenti: sullo sfondo la visione infinita di un orizzonte marino e in primo piano una scatola dei giochi da cui escono frammenti di memorie personali, fotografiche e cinematografiche, al ritmo continuo e immaginifico d’un film… A questo assiste lo spettatore di Les plages d’Agnès,  uscito nel 2008 per gli ottant’anni della sua regista franco-belga Agnès Varda, viaggio a ritroso che entra negli occhi e scivola dentro con tutta la forza empatica di cui la realtà si carica quando prende la forma del ricordo emotivamente vissuto.

Sono fantasmi di carne e di tanti colori quelli che la Varda riesuma dal suo passato con l’efficacia documentaria di ciò che è stato, e che torna per riprendersi spazio insieme alla realtà che è. Un dono ai cinefili, che vedono sfilare cinema, cultura e storia sociale dagli anni Cinquanta ai Novanta attraverso le icone di Jean Vilar, Philippe Noiret, Gerard Depardieu, Michel Piccoli, della Nouvelle Vague con Resnais e Godard, di Jim Morrison, e naturalmente di donne (Jane Birkin, Sandrine Bonnaire, Catherine Deneuve, la nostra Laura Betti).

Tanti i riferimenti ad artisti (Buñuel, Magritte, Calder) e gli inserti documentari: Cuba, il Vietnam, il movimento delle Black Panthers filmato nel ’68. Proprio mentre esplodeva il maggio francese, la Varda si trovava infatti in America, al seguito del regista e suo compagno Jacques Demy.

Scomparso nel 1990, Demy è un’altra presenza viva del film, memoria di un forte sodalizio che lo unì alla Varda anche nella produzione di film indipendenti, attraverso la casa di produzione Ciné-Tamaris da lei fondata.

Infinite le suggestioni che la regista riesce a trasmettere. Innanzitutto quella delle proprie radici, con un padre greco che forse spiega l’importanza delle spiagge e del mare (quelle dell’infanzia in Belgio, ad esempio, e poi la vita familiare da sfollati su un veliero a Sète, nel sud della Francia). La regista non a caso dice: “Se mi si potesse aprire, dentro di me si troverebbero delle spiagge”.

E poi: la continuità tra fotografia, documentario e cinema di finzione, forme espressive alternate nel tempo fino a trovare proprio in questo film una loro sintesi originale e matura; lo sguardo libero e curioso, da bambina in punta di piedi, sulla realtà che genera scoperta e stupore; la messa in scena di se stessa, così esplicita e diretta attraverso il corpo e la voce narrante, eppure sempre in funzione degli altri, dei fili tessuti tra sé e gli altri; gli specchi infiniti che legano tra loro le immagini, in un meccanismo associativo e onirico che ricorda il surrealismo. E un po’ anche Fellini, in quadri trasognati che sembrano usciti da un circo per finire nel volteggio di alcuni trapezisti, ancora una volta su una grande distesa di sabbia di fronte al mare.

Qualche sequenza esemplare: la prima, in cui la Varda dispone una serie di specchi sulla spiaggia, a un passo dal mare del Nord della sua infanzia, aprendo con una dichiarazione di poetica sul rapporto tra realtà e finzione come elemento costitutivo del farsi cinematografico. E poi quella in cui uno schermo viene trasportato su un carro di legno per le strade di un piccolo paese, rappresentando così l’unitarietà del filmare e del vivere, intimamente e anche socialmente. O anche quella, straniante, di una spiaggia allestita nel mezzo di una strada parigina e animata dai lavoratori di Ciné-Tamaris, a ennesima conferma che quando il nesso tra realtà e rappresentazione è davvero forte, la loro sintesi non è più finzione ma qualcosa di differente, di più autentico e profondo. Infine il gioco, l’ironia: a casa Varda arrivano i suoi amici, portando in dono ben ottanta scope per il suo ottantesimo compleanno. Così il cerchio si chiude all’insegna degli altri, con il tono assai lieve di chi evita l’autocelebrazione con un piccolo coup de théâtre.

Tutto questo è cinescrittura, termine che la regista usa per definire le sue scelte filmiche dalle premesse fino al montaggio finale, in un farsi dello stile sofisticato eppure naturale, intimo e pubblico insieme, originalissimo: un cinema agito come generatore di emozioni inedite, vivo e in netto contrasto con l’anestetico che generalmente esala dai prodotti seriali.

“La vita? Per me è orizzontale come l’orizzonte del mare e le distese di sabbia che gli stanno di fronte”: un infinito reale, dove gli altri e la propria personale visione si incontrano nella pienezza e profondità di un atto creativo che tutto collega, ricordo e presente, vero e immaginazione.

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Stanza numero nove

E’ passata la macchina
che strappa ogni frutto
e lo butta nel gelo,
per fortuna non tutto risucchia

questo ti dico:
non finire nel tubo dell’aspiratore,
forse in un sogno troveresti
mani buone e sicure
occhi senza un inganno
e ogni pensiero conosciuto

altro è il groviglio d’intenzioni
che forzi e ti confonde
in un antro di cranio
evita la fuga se accompagna
in regioni d’assenza
oppure contempla quadri
d’immagini ordinate
dove il vento non scorre,
tra filari di fieno
pure vivi

ora interroghi il silenzio
esaurendo domande
e combatti lo sporco
con vigore di stracci,
energia che consumi fino
al riposo perfetto

o fino all’odio che monta
come acqua forzata (1996)

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