Non crediamoci assolti

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Vedere a teatro “Discorsi alla Nazione” di Ascanio Celestini proprio il 25 aprile è un’esperienza doppiamente forte. Ci si mette seduti dalla parte dei più e si comincia a battere nervosamente un piede, a sostenersi il mento per darsi un contegno e poi a sprofondare senza ritorno dentro quell’incubo in cui già si vive tutti i giorni, lì ripetuto con tutte le feroci strategie di una recitazione di parola e di realtà. Nemmeno un’invettiva, così comoda e liberatoria nell’individuare il nemico. Nemmeno la ricostruzione di fatti e atti di eversione progressiva, che rassicurano se li si mette in fila nel proprio deposito mentale, tenendone così a bada l’orrore e il pericolo. Niente di tutto questo. Celestini parte con l’impietosa descrizione di quello che Pasolini chiamava omologazione a partire da uno qualsiasi di noi, dichiaratamente di sinistra e profondamente non di sinistra: un rosario sgranato di incoerenze e luoghi comuni che vanno ben oltre il linguaggio, diventando azioni quotidiane terribili, nel loro accadere apparentemente così innocuo e invece costitutivamente così furbo, cinico, violento. Il tutto offerto al pubblico con la subdola formula da monologo televisivo, un intercalare ammiccante che scova in noi l’attitudine all’essere addomesticati e, di conseguenza, la disponibilità fiduciosa all’ascolto. E’ in una sorta di abbandono divertito, di guardia abbassata di fronte al riconoscibile, che poi arriva l’affondo: un crescendo che si allontana dagli schemi dell’ordine televisivo per diventare requisitoria dell’attore nei confronti del pubblico, in un’identificazione con la tirannide colta nei suoi meccanismi più devastanti. Fra questi, l’impadronirsi della stessa identità antropologica, sociale, culturale, in una parola politica, di chi un tempo era differente, per poi svuotarla di senso, di alterità e autenticità, in un rovesciamento che non lascia scampo. Anzi, che non ci ha lasciato scampo, perché noi siamo già nel dopo. Tutto è già accaduto e noi, a mutazione avvenuta, ora siamo come il tiranno, inchiodati alle nostre responsabilità, privi di qualsiasi distanza. E sull’orrore da rispecchiamento si conclude un monologo serratissimo che si libera sempre più dalla semplicità delle elencazioni e delle reiterazioni per diventare lo svelamento di una colonizzazione delle coscienze, forse di difficile comprensione per molti ma purtroppo reale e ampiamente al lavoro, nelle attuali e progressive trasformazioni di una democrazia malata. Verrebbe facile parlare, a questo punto, di Resistenza e di sistema elettorale, di oligarchie sempre più aggressive e prive di scrupoli. E poi di anonimi ossari, depositati in un mare profondo come la vergogna che dovremmo avere e che non abbiamo più. Giusto invece prendersi in silenzio il proprio carico, senza aggiungere parole e applausi come vie di fuga o comode sublimazioni.
Un’altra volta mi sentii, da spettatrice, chiamata in causa in modo forte e diretto, e fu con l’Antigone del Living Theatre: attori in mezzo alla platea, con gli occhi dritti negli occhi del pubblico, per consegnargli le sue responsabilità prima di ritirarsi inorriditi. Sono passati tanti anni ma forse quel filo di autenticità necessaria non si è perso, e torna a collegare il teatro alla vita, la rappresentazione alla realtà, il nomos a una sacrosanta insubordinazione.

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Grazie @AsinoMorto per #25AprOnAir

L'AgneseGrazie a @AsinoMorto che ha aperto su Twitter una casa di ricordi resistenti, spalancati all’aria che almeno si può respirare, senza retorica o rabbia che intossicano.
Cos’è la Resistenza, da allora e nel tempo, lo si impara giorno per giorno: pensando, facendo, unendo. Ma niente sarebbe, senza memoria di quello che è stato e che ancora ci lavora dentro. Fascismo e antifascismo, dittatura e libertà, morte e vita sono categorie precise del pensiero e ancor prima della realtà, senza mistificazione o compromesso.
La memoria ci fa essere umani: questa è la prima condizione per una Resistenza permanente. E allora grazie a chi scatena ricordi.
Per @AsinoMorto oggi c’è un racconto, di una bambina piccola su una bicicletta grande. Buon 25 aprile sempre, a lui e a tutti i resistenti.

La biciclettaLA BICICLETTA
Aveva quindici anni ma ne dimostrava dieci. Era piccola e magra, coi capelli lunghi, biondi e la pelle chiara. Sembrava convalescente ma dagli occhi cerchiati usciva uno sguardo vivace e dal corpo un’energia senza limiti.
Mordeva la vita con voracità e consumava tutto, anche se stessa, ma in quel moto perpetuo cresceva e si rafforzava.
La scelsero perché non c’era scelta, ormai. Pareva
una bambina, l’unica di cui il nemico poteva non
sospettare. In casa fecero una riunione segreta, i familiari
e altri che non aveva mai visto. Erano gentili, le dissero
che avrebbe svolto un lavoro importante. Doveva entrare
nella macchia, lì ci sarebbe stato qualcuno ad aspettarla.
Si sarebbero riconosciuti con una parola d’ordine, poi lei
avrebbe detto a voce alta un messaggio.
Quale parola d’ordine, quale messaggio? Doveva
controllare l’impazienza, non fare mai domande e agire
con calma e precisione. Questo le spiegarono, con
fermezza e una delicata premura che la stupì. Si sentì
protetta, capì che le volevano bene.
Avrebbe ricevuto il messaggio da uno di loro, il più
giovane, un ragazzo alto e robusto che le sorrideva come
un fratello. Sarebbe arrivato senza preavviso e
gliel’avrebbe detto a voce. Lei doveva impararlo a memoria
perché scrivere era vietato. Continua a leggere

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Dario Bellezza

DarioBellezza_TutteLePoesieHo conosciuto Dario Bellezza a Urbino, dopo un suo incontro pubblico burrascoso con gli studenti della facoltà di filosofia. Si era ritirato in una stanza dove chi me lo presentò gli spiegò che stava per uscire una mia ricerca sull’influenza dell’immaginario di Jean Genet nei suoi testi. Lui, miracolosamente placato, mi disse che non aveva mai rilasciato un’intervista lunga e che se volevo potevo fargliela per poi pubblicarla nel libro. Quella proposta inaspettata mi spiazzò. Pensavo che dagli scrittori studiati si dovesse mantenere una distanza di sicurezza e che inserire un’intervista in una ricerca universitaria fosse poco rigoroso. Inoltre non ero giornalista e non avevo mai intervistato nessuno.
Quell’intervista poi si fece, più per istinto che per volontà, e rimase l’unica della mia vita. Andai a Roma il 4 ottobre del 1989, in un pomeriggio dai colori dorati che presto si trasformò in tramonto. Dario viveva in via dei Pettinari in un’abitazione fatiscente. Sulle scale incrociai un ragazzo che correndo fuori le fece tremare. In casa interruppi una conversazione con un borgataro sui veri responsabili dell’omicidio di Pasolini, che poi continuò come se niente fosse. In cucina bevvi acqua nell’unica tazza rimasta e poi l’intervista cominciò, su un divano coperto da un telo. Lì tutto era povero, tranne la forza messa in quella lunga conversazione, anche nei passaggi più delicati, anche nei cali d’umore.
Oggi restano quattordici pagine finite in fondo a un libro quasi introvabile e una registrazione audio che ho soltanto io. E che ancora mi imbarazza, per certe mie ingenuità anche critiche e per una domanda che mai gli avrei fatto se solo avessi saputo, allora, della  sua malattia.
Negli anni seguenti Dario diventò un frequentatore dei salotti televisivi, violando l’autosufficienza della sua opera con l’esposizione della sua persona e delle note vicende dei suoi ultimi anni di vita. Su tutto questo non ho nulla da dire, per rispetto e distanza dalle sue scelte. So però che nessuna delle sue uscite pubbliche è minimamente paragonabile con quanto mi è rimasto di quel pomeriggio romano, così segreto e così unico.
Oggi, dopo lunga disattenzione editoriale, esce la sua opera poetica completa, a cura di Roberto Deidier. E’ un corpus che riaffiora ormai lontano dalle chiacchiere inutili, una rivincita del testo contro ogni oblio e distrazione.

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