Umanità aliena

Tornata a malincuore in Italia sono subito ripiombata in uno scenario da ultimo giorno prima della fine, tra distruzione e nessuna prospettiva. Ancora mi brucia qualche copertina estera che irride al disastro italiano e ai suoi aspetti più grotteschi. Fra tutte, quella con una caricatura del Presidente del Consiglio in divisa da marinaretto, tra giovani bionde e brune con le tette al vento, che ha finito per condizionare non poco il mio uso di un angolo lettura condiviso con vari stranieri.

Quasi per disperazione mi sono infilata in un cinema e ho visto “L’ultimo terrestre” di Gipi: una pausa salutare, e un moto di immediata simpatia per un film sincero, dalla grana grossa da opera prima e dal messaggio forte, affidato a uno stile non convenzionale e a suggestioni da graphic novel che ne fanno l’originalità. Un film dalla voce alta e delicata allo stesso tempo, dal realismo straniato, immerso nell’atmosfera del sogno e dell’incubo mescolati, della poesia e della vita tenuti insieme alla maniera toscana, tra immagine e racconto, tra sorrisi scanzonati e botte nei denti. Un’estetica sporca, forse volutamente imperfetta, come nella recitazione di Gabriele Spinelli nel ruolo del protagonista e nei brani musicali più aggressivi, che escono dalla finzione del film con prepotenza, riportando lo spettatore alla realtà cruda di un’umanità perduta. Roberto Herlitzka, invece, vi è scivolato dentro con la bravura di sempre, naturale nei dialoghi più intensi e anche più improbabili, come quello con l’aliena che, a differenza degli umani, forse è ancora capace di distinguere tra bene e male e di provare un qualche sentimento.

Impossibile non pensare alla mutazione antropologica di cui parlava Pasolini già nel 1974 e a Pasolini stesso, evocato non so con quanta intenzionalità nella scena più violenta, in cui un trans viene massacrato a colpi di pietra. Il ciclo si è compiuto, rendendo gli ultimi terrestri così vuoti e cattivi da allontanare da sé anche gli alieni, al confronto più buoni e soprattutto capaci di scegliere.

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Pörtschach

Un faro regola il confine
tra la fattoria e il bosco
l’erba raccoglie forme scure:
frutti ceduti dai rami
con un tonfo secco,
bave d’acqua e altri legni

il lago è fermo, inchiodato
nel buio

affiora solo questa riva
in una luce fredda,
con poche barche
e canneti interrotti
da anse silenziose,
pause d’una sinfonia breve
senza giorno né vento

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Chiarezza e disobbedienza, due virtù

Negli anni Sessanta Lorenzo Milani, da uomo e da prete,  difese l’obiezione di coscienza al servizio militare in risposta a un documento dei cappellani militari che la definivano “un insulto alla patria, estraneo al comandamento cristiano dell’amore ed espressione di viltà”. Gliene derivò un processo per apologia di reato e una condanna in appello, che giunse dopo la sua morte. Le pagine che scrisse più per spiegarsi che per difendersi contengono una tensione morale e parole così nette da costituire una voce inconfondibile e un esempio di retorica autentica, di quelle che non esistono più. Niente reggerebbe al confronto, oggi. Si scrive e si parla per non essere capiti, esercitando sugli altri un potere subdolo, e si evita ogni chiarezza di pensiero e di scelta perché muoversi in zone grigie, aperte a qualsiasi esito, è più conveniente. Una parabola verso l’indistinto ha caratterizzato i modi del vivere e anche la comunicazione, sempre più duttile e tecnicamente efficace nel rendere questa specie limbo in cui ora si galleggia, con stili e gradi di eleganza differenti a seconda delle classi sociali. Che ancora esistono, proprio come ai tempi di Milani, ma che, a differenza di allora, vengono camuffate, mescolate o addirittura negate per non doverne sostenere peso e conflitti.

Oggi, sempre in virtù dell’indistinto, accanto al riconoscimento formale dell’obiezione di coscienza si assiste a missioni di pace militare e a guerre umanitarie, ossimori dalla doppiezza devastante in nome dei quali si continua a uccidere, sprecando addirittura soldi pubblici sottratti alla ricerca, alla scuola, all’assistenza, in molti casi alla sussistenza. E tutto ciò accade perché si obbedisce o, più precisamente, perché non si disobbedisce (per viltà, o più spesso per indifferenza).

Chissà cosa pensava Milani degli ossimori… E cosa penserebbe oggi dell’attitudine comune a quella che definiva “cieca obbedienza”, nel frattempo geneticamente modificata in indifferenza? Forse troverebbe tra i due termini una perfetta sovrapposizione, come quella che unisce sovrani e sudditi di ogni latitudine, negli stati come nelle chiese.

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