Genova, 19 luglio 2001: un mondo diverso, possibile

Ricordo quei giorni di luglio 2001 a Genova, straordinari e terribili, e insieme ripenso a questi dieci anni di grave crisi per l’ambiente, la giustizia sociale e i diritti democratici, in Italia e nel mondo. Oggi, col senno di poi, mi dico che avevamo proprio ragione. Non si poteva né si potrà mai consegnare il futuro del pianeta a pochi capi di stato, garanti della quotidiana rapina della maggior parte delle risorse mondiali ad opera di una minoranza  privilegiata. Non si poteva né si potrà mai avallare lo spreco indefinito di energie, ipotecando la vita della terra e delle specie. Non si poteva né si potrà mai giustificare uno sviluppo malato che riduce a merce bruta ogni cosa, compresi gli esseri umani, le emozioni, i sentimenti. Non si poteva né si potrà mai assolvere la barbarie planetaria delle multinazionali e delle guerre, delle speculazioni finanziarie e criminali. Non si poteva né si potrà mai permettere che i beni comuni vengano sottratti alle collettività per diventare proprietà privata di pochi profittatori.

Se questi contenuti, portati a Genova da migliaia di movimenti di varia estrazione e provenienza, erano validi allora, oggi lo sono anche di più. Di fronte alla crisi mondiale una nuova speranza si sta muovendo, a volte in profondità a volte più in superficie, a latitudini differenti: dal nord Africa all’America Latina, dalla Spagna all’Italia… Quello che serve, ancora come allora, è collegare e unire individui e gruppi, dal piccolo al grande e viceversa, dal locale al globale e viceversa.

Su Genova si fatica anche a scrivere, perché è diventata sinonimo di un’enorme ferita aperta. Soprattutto qui in Italia, dove la democrazia è in blocco insieme a tutti i suoi apparati, politici e d’ordine, così distanti dal paese reale e dai suoi bisogni sempre più urgenti.

Eppure tutto cominciò con un enorme corteo pacifico. Era il 19 luglio, come oggi, e sfilavano i migranti: una marea umana di suoni e colori, una grande speranza, una bellissima danza di uguali…

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L’uomo che abbracciò gli alberi

In un ritaglio conservato da un notiziario di Greenpeace ho trovato un breve testo di José Saramago. Vi racconta che suo nonno, pastore e contadino analfabeta, quando sentì vicina la fine, andò ad abbracciare  piangendo uno per uno tutti i suoi alberi, come fossero parte della famiglia. Un gesto senza parole, come del resto in vita sua mai aveva spiegato quale importanza avessero per lui quegli alberi.

Saramago scrive: “Nel fondo del suo cuore, forse mio nonno sapeva, di un sapere misterioso, difficile da esprimere con le parole, che la vita della terra e degli alberi è una sola vita … (gli alberi) si nutrono direttamente dalla terra, perché l’afferrano con le loro radici e da essa sono afferrati. Terra e albero, ecco la simbiosi perfetta. Può darsi che qualcuno pensi che ci sia troppo lirismo in queste parole. E’ possibile, perché, così come la terra e gli alberi, il sentimento e la ragione vanno sempre uniti”

Leggere l’intero brano lascia senza parole esattamente come il nonno, perché il suo gesto sprigiona una tale forza da superare la grandezza letteraria con cui viene evocato e ancor più qualsiasi inutile commento.

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Simenon e Trockij

Con sorpresa ho scoperto, attraverso un piccolo libro della casa editrice Oèdipus uscito sette anni fa, un’intervista che Georges Simenon ha fatto nel 1933 a Lev Trockij, in esilio nell’isola di Prinkipo, in Turchia. Sono appena sessanta pagine ma piene di spunti, per metà arricchite dalla postfazione “Immaginario e rivoluzione” scritta da Fabrizio Denunzio. Densa di intrecci sia con la scrittura maigretiana sia con la cultura francese ed europea (con Marx e Benjamin chiavi di volta per una reinterpretazione di Trockij), ha anche il merito di condensare nel titolo, con grande efficacia, la più fertile evidenza di un incontro così particolare: la dimensione letteraria a confronto con quella storica.

Rimangono ancora sconosciuti i motivi per cui Trockij decise di concedere un’intervista proprio a Simenon, ma si può registrare, coincidenza o meno, che circa un mese dopo quell’incontro Trockij ottenne dal governo francese quel visto d’ingresso che gli permise di concludere il suo soggiorno in Turchia.

Quanto alle domande (tre in tutto, e preventivamente concordate), riguardano i temi della razza, della dittatura e del progresso storico, di grande importanza nel ’33. Ad esse Trockij fornisce risposte scritte e concluse che, rilette oggi, tornano attuali anche alla luce di tutti gli eventi successivi.

Ad esempio, alla domanda se “la questione razziale sarà predominante nell’evoluzione che seguirà” Trockij risponde che è ben lungi dal pensarlo perché “la razza è elemento statico e passivo”, e come tale incapace di “determinare direttamente il movimento e lo sviluppo”. In questo caso, più che miopia politica riguardo allo sterminio degli ebrei che si consumerà di lì a poco (e di cui non saprà mai, perché morirà con il cranio sfondato da un sicario stalinista appena nel ’40), personalmente vi ho letto la sua fiducia in una dimensione storica evoluta, e non bloccata in secche prestoriche o regredita in degenerazioni antropologiche. Certo, la barbarie del Novecento l’avrebbe poi smentito, ma proprio per una potenzialità involutiva che, spesso coincidente con sistemi totalitari, è  sempre in agguato nella storia, oggi come in passato.

Suggestive, infine, sono le poche pagine che introducono all’intervista. In esse Simenon lascia andare la penna come solo lui sa fare, descrivendo le atmosfere magiche di Istanbul e di Parigi in un rispecchiamento continuo: un breve esempio di internazionalismo letterario e, insieme, una riconferma dell’importanza dell’immaginario anche per la sua inscindibilità dalla storia.

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