Liberi ad Alcatraz

Ieri io e mio marito ci siamo regalati una mezza giornata di libertà, destinazione Alcatraz di Jacopo Fo (a Santa Cristina, tra Gubbio e Perugia).

Per lavoro ho vissuto alcuni anni in Umbria, senza però conoscere questo suo cuore più ruvido e appartato, fatto di colline aspre, di boschi intatti e di rari casali in pietra seminascosti dal verde.

Anche Alcatraz è stata una scoperta, più suggestiva di come internet la mostra: ritrosa ma avvolgente, isolata ma aperta, silenziosa ma piena di vite sottotraccia, che escono dai boschi per poi tornarvi, come se non si fossero mai mostrate. Sparsi dovunque, restano vigili i parti della fantasia di chi ci vive o ci è vissuto, forme dipinte che escono dai cespugli come streghe o briganti alla macchia, come sogni o ricordi.

Abbiamo camminato qualche ora, dalle antiche rovine (rimaste un mistero) a uno scorcio con ulivi sparsi su un falsopiano, fino a una torre inattesa;  dalla parte opposta, in discesa, per contrappunto siamo arrivati a una casa che chiamano bassa, e che mostra una bellezza sussurrata, sua e del paesaggio, tutta da scoprire.

Risaliti abbiamo mangiato a un tavolo comune cibi naturali cucinati con cura, in particolare degli gnocchi alle erbe morbidi e saporiti, altro piccolo capolavoro.

Accanto, la presenza discreta di Franca Rame e Dario Fo, insieme a Mario Pirovano (che mio marito, più fisionomista di me, ha subito riconosciuto) e quella ospitale e attenta di Eleonora Albanese e Jacopo Fo: persone, non personaggi, che portano sulle spalle, ciascuna a suo modo, esperienze anche difficili e scelte che andrebbero prese ad esempio. Tra crescia e verdure buonissime, ieri a tavola si respirava tutto questo ma, per rispetto di un’intimità personale e anche familiare, ci siamo trattenuti dal dirlo.

Altrimenti, avrei avuto una gran voglia di raccontare di quando, ancora giovanissima, mi emozionai davanti alla Palazzina Liberty di Milano (per la sua storia, per quello che rappresentava), di cosa è ancora per me Mistero buffo, di quando vidi dal vivo la Rame di Tutta casa, letto e chiesa, e di quando, qualche anno fa, bibliotecaria a Pesaro mi trovai di fronte l’utente Dario Fo che chiedeva qualche libro su Giotto e Cavallini. Giuro che mi sforzai di essere professionale, ma le gambe mi tremavano. Alla fine, accompagnandolo per indicargli la strada, riuscii anche a dirgli con disperazione che vivevo a Fano dall’anno in cui gli amministratori locali gli avevano tolto la direzione artistica del Carnevale,  preferendogli Loredana Lecciso.

Antonio, mio marito, avrebbe di sicuro raccontato a Jacopo Fo di quanto il Cacao della domenica sia per lui un appuntamento fisso e prezioso, di come condivida il suo approccio pragmatico e ottimista ai problemi, primo fra tutti quello ambientale, e di come un sorriso guarisca da ogni rabbia, anche se sacrosanta.

Abbiamo però preferito il silenzio, sapendo che un riconoscimento comune in valori autentici si mantiene e cresce anche nel non detto, anche nella distanza, e produce frutti nelle vite differenti di ognuno.

Nonostante questo, avevamo così poca voglia di lasciare Alcatraz che sulla strada del ritorno ci siamo persi.

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Una nuova Resistenza

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Quando sento qualche partigiano ancora vivo parlare con la voce rotta dalla vecchiaia e dall’emozione, e con la dignitosa convinzione d’aver fatto la scelta giusta, sento tanta riconoscenza ma anche vergogna per le generazioni successive, che hanno abbattuto in pochi decenni un patrimonio di valori, coraggio e coerenza dalle radici profonde.

Quello che frettolosamente viene definito revisionismo è un fenomeno più complesso, che andrebbe indagato soprattutto in ciò che resta della ex sinistra e dei suoi alleati di sempre.

Se il berlusconismo viene definito mutazione antropologica, altrettanto potrebbe dirsi della trasformazione di chi, dalla Costituente in poi, ha abbandonato progressivamente l’antifascismo, finendo poi per legittimare non soltanto il berlusconismo (tutto basato sul culto della personalità e sul decisionismo in spregio alle rappresentanze popolari) ma anche aree sempre più consistenti di ex fascisti e nuovi razzisti.

Questo è stato possibile anche in virtù di uno stile che non distanzia sé dall’avversario politico, a cui si è consegnata ogni prerogativa anche istituzionale, riconfermandone di giorno in giorno la legittimità con comportamenti irresponsabili se non conniventi, patteggiando leggi, voti, astensioni e assenze strategiche al voto.

Ma se ciò è stato possibile, vuol dire che un’identità politica su cui si è fondata prima la Resistenza e poi la repubblica si è andata mutando in qualcosa di vacuo e inquietante, per certi versi più pericoloso ancora di ogni esplicita manifestazione di nuovo fascismo.

Più pericoloso, perché ad esso si dovrebbe affidare la liberazione dell’Italia da un sistema nei fatti già dittatoriale (e ora anche interventista nell’ex colonia libica).

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Tutto cambia

Non ho particolare passione per Nanni Moretti e per i suoi film, ma stavolta ho visto Habemus papam due volte e non ho dubbi: è proprio bello. Tanti gli echi  (provenienti da arti visive, teatro, cinema e musica), profonde le domande che pone (su solitudine, identità e libertà dell’uomo, sul loro rapporto con il sistema, sul senso di comunità), come anche i dubbi, tradotti in un’ironia critica a volte pungente a volte amorevole, ma sempre partecipe della condizione esistenziale e, da questo punto di vista, più matura.

Se nulla sfugge all’ironia (religione, psicanalisi, informazione e comunicazione, così come i suoi professionisti), il film si esprime anche in altri toni (poetico, umoristico, sarcastico, drammatico) che, quando riescono a fondersi, diventano una sinfonia di immagini, suoni e simboli in omaggio all’umanità tutta, individuale e collettiva.

Bravi gli attori, bravissimo Michel Piccoli, non facile la sceneggiatura e complessa la colonna sonora, sofisticato il montaggio anche nell’inserimento delle immagini di repertorio. Bella la scena dei cardinali che giocano a pallavolo in un torneo a squadre di tutti i continenti (cose dell’altro mondo, verrebbe da dire, ma di un mondo migliore). E straordinaria quella in cui battono il tempo e ballano per accompagnare Todo cambia cantata da Mercedes Sosa, voce della resistenza alla dittatura argentina.

Difficile non pensare alla storica connivenza delle gerarchie ecclesiastiche con le dittature e le guerre come, più in generale, alla pesante ingerenza del Vaticano in ogni campo, soprattutto in Italia.

Questo film, però, evoca ma non esplicita, suggerisce ma non denuncia, domanda ma non risponde, affidando a una parabola dai contenuti intensamente umani alcuni spunti sulla possibilità di cambiamento. Anche nella sua conclusione secca, con un uomo che, benché sequestrato dal sistema religioso, umile e sincero rinuncia al papato per continuare a cercare se stesso.

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