Parole scambiate per caso
sfilano via dai corpi
come ombre
sono accidenti senza forma
e senso, riflessi involontari
muscoli che rilasciano
un pensiero di troppo, inutile
come un sorriso nervoso
uno sbadiglio
un incontro perduto
Parole scambiate per caso
sfilano via dai corpi
come ombre
sono accidenti senza forma
e senso, riflessi involontari
muscoli che rilasciano
un pensiero di troppo, inutile
come un sorriso nervoso
uno sbadiglio
un incontro perduto
La scomparsa di Franco Quadri mi ha fatto ricordare due differenti periodi di studio della mia giovinezza: il primo dedicato alle avanguardie teatrali e il secondo a Jean Genet. In tutti e due incontrai il lavoro di Quadri, sia critico teatrale sia traduttore. Inoltre, lo lessi a margine di un convegno internazionale dedicato allo scrittore francese, che seguii personalmente e che ancora mi torna alla memoria per l’intensità e la vitalità dei contributi.
Mi capitò anche di intravedere i suoi capelli bianchi in qualche platea, e di fissarli nel mio immaginario come il simbolo di una vita tutta spesa per il teatro e per la sua critica necessaria.
In genere nutro diffidenza per chi raggiunge uno status indiscutibile anche attraverso giornali ricchi, potenti e pericolosamente omologanti (come Repubblica, ad esempio). Eppure quella testa bianca continua a rappresentarmi un modo militante e intransigente di essere dentro le cose, per conoscerle e poi giudicarle con talento e passione per loro stessa natura scomodi (soprattutto nei protettorati della cultura su commissione, controllata e addomesticata dalle poltrone politiche di turno).
Per concludere, poi, molto avrebbero da imparare da Quadri quei giornalisti che pubblicano sui giornali e in Internet articoli e recensioni senza originalità, clonando il primo pezzo che trovano con, al massimo, la fatica personale di qualche taglio. Anche la morte stessa di Quadri sta producendo in questi giorni necrologi del tipo “copia e incolla”, stridenti con lo spessore di un critico autentico e instancabile come lui.

L’Italia è entrata in guerra contro la Libia ma agli italiani, a cui nessuno ha chiesto se erano d’accordo, il Presidente della Repubblica (che purtroppo si chiama Napolitano e non Scalfaro) spiega con supponenza e anche un po’ di fastidio che non si tratta di guerra ma di un’altra cosa. Come si chiami quella cosa che fa lanciare all’improvviso centinaia di missili a pioggia sulla Libia lo sa solo lui insieme a qualche altra mente eletta, di governo come di opposizione. In Afghanistan, del resto, dove morte e sofferenza proseguono da anni, guai a dire che si stia facendo una guerra: al massimo si potrà chiamarla guerra umanitaria, cioè un’altra cosa.
Così il popolo bue, che ha sventolato festoso bandiere tricolore fino a giovedì notte, venerdì mattina si è svegliato in guerra senza nemmeno la libertà di saperlo e di dirlo. Perché il popolo bue non deve né sapere né dire ma soltanto obbedire, né deve scegliere o capire perché, ad esempio, l’Italia abbia armato e sostenuto fino all’ultimo un personaggio come Gheddafi, dittatore da più di quarant’anni, facendoci affari e addirittura un trattato di amicizia. Non deve capire perché tutti gli strumenti di pressione possibili, dall’embargo al sequestro dei beni fino alle azioni diplomatiche più spinte e più corali siano stati se non ignorati almeno depotenziati dalla precipitosa decisione interventista di pochissime nazioni, evidentemente desiderose di fare presto e da sé ma sotto il solito cappello dell’Onu (di nessuna efficacia per le popolazioni da proteggere ma copertura indiscutibile per gli stati partiti all’attacco).
Così, nel giro di un fine settimana, tra tiepide preoccupazioni e grandi bugie per il pericolo nucleare giappponese, tra festeggiamenti per l’unità d’Italia e altre amenità, un governo voltagabbana, privo di ogni decenza e prudenza, ha virato al punto da mettersi a disposizione totale degli interventisti francesi, inglesi e americani con tutto quello che serve per fare una guerra: basi militari, uomini, mezzi. Intanto l’Unione africana ha chiesto per la crisi libica una soluzione africana, mentre la Lega araba ha denunciato l’intervento militare in corso perchè fuori dai limiti della risoluzione Onu che ne è all’origine.
Il mondo è una polveriera, ovunque vi sono popolazioni perseguitate da fame, malattie e soprusi. Cecenia, Darfur, Ruanda e Tibet sono soltanto alcuni esempi. Vogliamo parlare dell’infinita odissea del popolo palestinese? Vogliamo parlare delle tante dittature, a volte camuffate e anche dorate, che ci sono in giro? Non sempre però si interviene, e perché? Sarà forse per motivi indicibili? Sarà forse che la caccia di qualche bene al sole, energetico e non solo, spinge ancora verso terre da colonizzare?
Di fronte a certi capi di stato, paladini ipocriti di una falsa democrazia da esportare con le armi (favorendone il mercato e tutto quello ci gira attorno) per riceverne benefici economici e strategici (risorse, mercati, con l’assurdità di ricostruire quello che prima si è distrutto), si prova davvero una grande pena. Si tratta di uomini rivolti all’indietro, incapaci di diplomazia e di politica, rozzi e utilitaristi. Ottusi, perché il bottino di oggi, per sé e per pochi altri, sarà danno irrimediabile per intere generazioni.
L’articolo 11 della nostra Costituzione dice: L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali. Subito dopo l’articolo 12 dice: La bandiera della Repubblica è il tricolore italiano: verde, bianco e rosso. Chi in questi giorni ha esposto e difeso la bandiera italiana non può non ripudiare la guerra, perché la Costituzione è una e vale tutta.