Quando arrivava Giorgio

Nel paese in cui sono nata ho trascorso infanzia e giovinezza. Qualche ricordo riaffiora, e su tutti quello della bruttezza, marchio indelebile di palazzinari a braccetto con il piccì. Piccolo monumento al partito degli amministratori, impermeabile alle novità e ostile alla non appartenenza, ancora oggi ostenta il suo caos urbanistico. L’obbrobrio di casermoni che portano nome e cognome di chi li ha voluti anche nel centro storico (stravolto dal cemento fin sopra i corsi d’acqua, fin sotto una meravigliosa chiesa del dodicesimo secolo), fa il paio con il traffico che vi arriva per vecchi interessi di bottega duri a morire. Un parco dedicato al primo maggio (evviva la retorica e abbasso l’ambientalismo) ha perfino sostituito un pezzo di campagna, tanto per evitare il verde nel centro abitato. Potrei parlare di una discarica e anche di altri affari, ma non è questo ora l’argomento.

Voglio ricordare Giorgio: alto, distinto, elegante, di grande cultura e stile cerimonioso. Un signore, così nobile nei tratti da far pensare a un’origine regale. Storie di paese, per carità, ma il mito se ne alimentava, conciliandosi con l’appartenenza al rango più elevato della gerarchia comunista e insieme alla cultura liberale (o liberal, che senza la vocale finale guadagnava in appeal).

Giorgio appariva in paese ogni tanto, soprattutto nei fine settimana, e la notizia si spargeva in anticipo insieme all’attesa. A casa mi avevano spiegato che veniva con sua moglie, donna intelligente e vivacissima con un nome un po’ strano, come sua sorella. Nate in paese tutte e due, donne volitive, come vuole la tradizione che vi fece nascere Maria Montessori e tante donne emancipate fin dall’Ottocento con il lavoro in manifattura tabacchi. Mi avevano anche spiegato che la moglie aveva rinunciato alla sua professione di avvocato per seguire Giorgio a Roma e dovunque il partito e gli incarichi istituzionali lo chiamassero. Povera donna, pensai. Pensai anche che dietro a uomini di successo spesso si nascondono rinunce femminili molto coraggiose e poco utili.

Mia madre in quel periodo mi accompagnava al cinema d’essai con la stessa dedizione con cui si va a messa. Io ero una ragazzina ma ci andavo volentieri perché arrivavano registi e attori di tendenza e perché si poteva discutere di film e politica con più libertà di quella che si respirava in paese. Il cinema si faceva nel teatro, con platea e ordini di palchi in cui la gente, che spesso veniva anche da fuori, si mescolava come capitava. Anzi, la forza della platea era grande, da lì partivano gli interventi più appassionati e le posizioni più aperte.
Una sera riservarono il palco centrale di prim’ordine. Non era mai successo prima. Intorno c’era attesa e curiosità, mia madre sottovoce mi disse che era per Giorgio. Gli hanno dato proprio quello regale, replicai, e mia madre mi fece gli occhiacci perché della regalità di Giorgio parlavano tutti ma sempre in grande segreto.

Mi ricordo nitidamente il suo arrivo: alto, completo scuro, si sedette al centro accanto a quella moglie ex tuttopepe che ora mi faceva tristezza. Il palco gli era stato riservato, ma perché? Ma perché è Giorgio, disse mia madre. E allora? Penso che quel palco ingiustamente riservato e l’aria nuova dei film primi anni Settanta abbiano creato in me una piccola tromba d’aria, anticipo degli anni successivi.

Quel palco a Giorgio ha portato molta fortuna, a noi cittadini meno. Lui ha attraversato con stile le peggiori nefandezze delle varie repubbliche, noi le abbiamo subìte. Quando è diventato ministro dell’interno mi sono detta: l’interno va per la prima volta non a un democristiano ma a un ex comunista, questo qui scoperchierà il tegame e potremo finalmente guardarci dentro. Ingenua: il suo stile ha introdotto la chiusura ermetica, così perfetta e appropriata da portarlo, a distanza di anni, addirittura alla presidenza della repubblica.

Da presidente Giorgio ha sottoscritto, e prima ancora concertato con disponibilità preventiva al suggerimento, tutti i compitini berlusconiani così prossimi all’illegalità e all’eversione, fino a quando quelli delle banche e della finanza internazionale non gli si sono sostituiti d’imperio, esonerandolo dal ruolo di garante della democrazia e della Costituzione per quella causa di forza maggiore che si chiama crisi.

Oggi i suoi gli riconoscono impropriamente coraggio e capacità politica, ergendolo a salvatore della patria prima dal disastro berlusconiano e poi da quello economico. E gli danno anche per il 25 aprile la piazza della città dove lavoro, perché parli ufficialmente della Resistenza. E ufficiosamente, immagino, dei sacrifici richiesti ai cittadini, affinché siano disciplinati e obbedienti più che mai. Per il bene di chi? Mia madre risponderebbe: di Giorgio. Io aggiungo: di quelli come lui.

Domani arriva Giorgio e io mi sogno una piazza piena in perfetto silenzio, capace di guardarlo dritto negli occhi per ricordargli, Costituzione alla mano, a chi appartiene la sovranità. Io sarò in qualche angolo nascosto delle nostre campagne, dove chi è morto per darci anche quella Costituzione mai ne avrebbe voluto questo scempio.

C’era una volta una giovane compaesana che si chiamava Clio Bittoni, e forse ancora c’è, nascosta dietro una grande ombra. Domani la porterei con me, nel sole chiaro delle nostre campagne.

Questa voce è stata pubblicata in politica e contrassegnata con , , . Contrassegna il permalink.