Lo chiamavamo Oscarone

Lo chiamavamo in modo un po’ scanzonato “Oscarone” e intanto distribuivamo volantini contro la prima guerra del Golfo. Era il 1991 e qualcuno mi diceva che quel vecchio democristiano lontano anni luce da noi prima o poi ci avrebbe sorpreso. E così è stato, specie col suo ripetere sempre e comunque “L’Italia ripudia la guerra”, rifiutando ogni interpretazione possibilista o addirittura rovesciata dell’art. 11 della Costituzione. Interpretazione che si è fatta strada nelle “sue” istituzioni per gli interessi forti che vi si nascondono, trascinando più volte l’Italia in guerra, dal Golfo ai Balcani fino alle ultime missioni, con una continuità che ha sempre unito schieramenti politici tra loro non troppo differenti.

Inoltre, vissuto più a lungo di altri padri costituenti, Scalfaro ha difeso fino alla fine e con forza la Costituzione e la democrazia da chi per quasi un ventennio ne ha fatto carta straccia, complici le legittimazioni, i revisionismi e i tatticismi di una generazione politicamente vicina alla sua ma anagraficamente successiva, tanto debole nella morale e nella coerenza quanto forte nel cinismo e nel trasformismo.

Scalfaro era una specie di mosca bianca, ancor più se confrontato con i Presidenti della Repubblica suoi successori. Eppure ha attraversato tutta la storia istituzionale italiana e le sue ombre più grandi, dai terrorismi alle stragi ai servizi segreti agli scandali.  Eppure ha sempre rappresentato quel cattolicesimo conservatore che si fa partito senza porsi tanti problemi né di libertà di pensiero né di reale cambiamento della società a favore degli ultimi. Non si tratta dunque di farne un’icona ma di riflettere sulle carenze della politica, tante e tali da rendere eccezionale anche chi di fatto non lo è.

Scalfaro parlava di rispetto per l’avversario politico portando esempi d’altri tempi. Per forza, perché al di là delle parole utilizzate come gusci vuoti (e chi gli rende onore soltanto ora che è morto ne sa qualcosa), “rispetto” e “avversario politico” sono concetti passati. Il primo è stato battuto dal vuoto morale e dalla delazione strumentale di politici e media, mentre il secondo è stato travolto dalla mutevolezza incoerente delle posizioni, al servizio di tanti interessi e di nessun ideale.

Pubblicato in politica | Contrassegnato | 1 commento

L’altro mare di Angelopoulos

La morte di Theo Angelopoulos ha interrotto bruscamente la lavorazione del suo ultimo film L’altro mare, dedicato alla crisi greca. Una morte è sempre assurda, specie quando irrompe nel momento più intenso di una vita o di una creazione artistica, rendendola incompiuta.

Ora incombe, insieme agli interrogativi su come sarebbe stata, un cortocircuito di ricordi legati ai film passati: alcune inquadrature immote, pause e silenzi inconfondibili, un’umanità epica incisa nei personaggi e nella durata, presente e mitica. Tra sfondo e persona Angelopoulos muoveva la storia e l’utopia, quella stessa lasciata alla propria terra in tempo di esilio e poi ricercata al ritorno. Come un Ulisse qualsiasi, con volontà e smarrimento.

A me è tornata in mente l’Atene caotica della democrazia ritrovata, un mare di cemento ai piedi dell’Acropoli, gli ingorghi e il respiro grasso dei motori, un ragazzo in motorino che portava le bobine da un cinema all’altro. E poi le fughe verso il mare. Oppure Florina, appartata e poco appariscente: anche lì una morte improvvisa durante la lavorazione. Quella di Volonté, uomo dalle poche parole e dagli occhi schivi, spesso rivolti a terra come chi cerca qualcosa che ha perduto.

Angelopoulos era la forza dei silenzi e delle immagini, ma anche del pensiero che interpreta limiti e pericoli della storia recente. Come quella della sua Grecia in piena crisi economica, humus per l’ultimo film. Ne sono prova alcuni passaggi di un’intervista apparsa sul Manifesto lo scorso anno.

“Siamo arrivati, e non solo in Grecia ma in generale, a un periodo in cui sono le banche che decidono… Sto preparando un film che si chiamerà L’altro mare e che parla di questa situazione attraverso la storia di un piccolo gruppo di giovani attori che cercano di mettere in scena L’opera da tre soldi di Brecht insieme a dei lavoratori in sciopero e non riescono a farlo… I problemi sono arrivati da una sorta di esplosione del capitalismo in un universo che non crede più a niente perché i sogni, l’utopia socialista è crollata. Non c’è più prospettiva storica. Di fronte a questo orizzonte chiuso sono arrivati anni disperati. La strada è libera per il sistema capitalista senza limiti”.

Lui stesso chiedeva che tutto il popolo si pronunciasse sulla crisi attraverso un referendum, che nel frattempo è stato impedito. Ormai la gente perde il lavoro, i negozi chiudono, è un problema farsi curare, isole e patrimonio artistico sono in svendita. Parecchi stanno emigrando.

Il registra raccontava la disperazione della gente, degli artisti: “Non ci sono soldi per il cinema, per il teatro, le casse sono chiuse. Le sovvenzioni per l’arte, la cultura sono finite. La maggior parte delle persone che lavora nei teatri lavora senza essere pagata… Il Centro del cinema ha chiuso…”

E concludeva dicendo: “È difficile spiegare ai giovani, hanno difficoltà a comprendere. Per la mia generazione che ha creduto di poter cambiare il mondo è difficile vivere il presente. Abbiamo creduto di essere a cavallo sul tempo e poi constatiamo che l’utopia è finita… Gli economisti non sono così sensibili, gli artisti sono coscienti di quello che avviene, non hanno i mezzi per farlo, non se ne esce con sistemi economici. Forse c’è bisogno di qualcosa di nuovo”.

Ora resta la speranza di conoscere l’ultimo film così com’è, anche se incompiuto, per la coscienza intatta che lo ha ispirato e per la capacità di sguardo di chi, attraversato un mare, già forse riusciva a intravederne un altro.

Pubblicato in cinema, crisi economica | Contrassegnato , | Lascia un commento

La Valle non si arresta!

Le perquisizioni e gli arresti scattati all’alba in tutta Italia, negli ambienti no Tav e non solo, sono il segno evidente che la dittatura del mercato si sta imponendo con regole ancora più ferree. Da una parte si decide di saccheggiare chi ha meno e di introdurre il lavoro non-stop, tomba di ogni umanità possibile e di ogni certezza futura. Dall’altra, proprio mentre scoppiano ovunque le prime proteste, parte un’operazione di polizia diretta a uno dei simboli più forti dell’autodeterminazione popolare, a difesa del territorio e dei beni  comuni da speculazioni pesanti, inutili e in odore di criminalità organizzata.

Guarda caso, però, queste speculazioni sono fortemente volute dalla maggioranza dei partiti che, ridotti a tappezzeria in un Parlamento fantasma, tentano di garantirsi almeno gli affari.

Oggi il messaggio è anche più chiaro: il grande manovratore al Governo non va disturbato, ora è lui a garantire la continuità di interessi passati e presenti. E se qualcuno non ci sta si rispolvera il manuale delle strategie repressive, buono per ogni stagione e conveniente per molti.  Per continuare a lucrare insensatamente, così come si è fatto sinora nonostante i terribili risultati, e per mantenere il controllo sociale, in uno stato di anestesia generale che ci immobilizza ormai da decenni.

Pubblicato in Uncategorized | Contrassegnato , , | Lascia un commento