Appena dopo la sua nascita la neve smise di cadere. Il sole era coperto da una volta compatta di nuvole d’un grigio chiarissimo e lì dov’era, nel punto più alto del cielo, il grigio diventava bianco così luminoso da non poterlo guardare. La tregua era giunta inattesa, come il parto, anticipato e veloce, annunciato da un solo vagito breve nel silenzio ovattato della casa. Così la madre consegnò al giorno sua figlia, e le sembrò una fortuna. La notte era stata lunga, senza luna, senza nemmeno un chiarore, e aprirsi alla luce fu per lei una liberazione.
La bambina crebbe come crescevano i figli in quell’angolo stretto di valle: con pochi cibi, pochi gesti, un amore essenziale e ruvido, sempre incombente, come i profili grezzi delle montagne. La neve d’inverno era dovunque, e lei ci viveva insieme imparando a osservarla. Riconosceva le infinite combinazioni di ghiaccio e pioggia, i tentativi non riusciti di una neve perfetta, fatta di fiocchi grandi, morbidi, sospesi nell’aria in assenza di vento. Quando, raramente, la perfezione si realizzava, la sua incredulità diventava certezza nella riproduzione di ogni dettaglio: lei disegnava la neve così come le sembrava, fitti aghi bianchi intorno a un cuore minuscolo, invisibile come il sole della sua nascita, come un’energia sfuggente. Riempiva fogli interi con la stessa cifra, ripetuta con pazienza e convinzione. Quella era l’unica neve che sognava e voleva.
Il resto era disordine del cielo e dei venti, che insidiava piccoli e grandi equilibri: un sentiero battuto diretto all’alpeggio, un ruscello immobile nel ghiaccio, un giorno di limpidezza assoluta, dalle cime più alte fino alle case. Bastava poco a confondere la direzione del vento, a smuovere le acque, a scombinare il disegno di una natura coerente.
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