La Grecia nel cuore

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La Grecia è unica, per la bellezza del paesaggio, la cultura, il carattere della sua gente. Per me una seconda casa, con i cassetti pieni di emozioni intense, difficili da restituire. Lì nel corso degli anni mi è capitato di tutto. Per ore in cima a un monte deserto con una lambretta vecchissima e in panne, finalmente ci appare un uomo in cima a una ruspa, carica la lambretta nella pala e noi in piedi nella cabina e ci porta così fino al mare. Un ateniese che trasporta pellicole in motorino da un cinema all’altro ci scorta fino a una trattoria sperduta e ci offre lo spezzatino con le patate, proprio come lo fanno in Italia. Sotto gli occhi increduli di quattro vecchietti visitiamo a lungo Messene ma quella che cerchiamo, omonima, è lontana qualche chilometro.

Ho camminato tanto dovunque, dai monti della Zagoria al Mani, ogni volta con l’orologio fermo, come quello che a Kalavrita ancora segna l’ora dello sterminio dei maschi per mano tedesca. Così ho trovato Vasileos e la vivacità di Salonicco, la Florina del regista Anghelopulos, dove morì Volonté, e le Meteore in arrampicata. In quella zona fanno lo tzatziki più buono che abbia mai sentito. La notizia dell’attentato alle Torri gemelle mi è arrivata a Finikounda, insieme al mistral e alle vele dritte come non mai. Di notte anche una scossa di terremoto, di cui nessuno come al solito si è preoccupato. Questo è la Grecia, insieme a una miriade di isole che per girarle tutte bisognerebbe vivere chissà quante volte, insieme a quel che resta della sua archeologia, sparsa per il mondo per mancanza di mezzi, insieme ai poeti in esilio e alla caduta dei colonnelli,  a struggenti distese di ulivi e a platani immensi, soli in mezzo a piccole piazze di pietra.

Intanto nelle piazze più grandi i cittadini si ribellano al fallimento economico del loro paese perché lo soffrono senza averlo capito, soprattutto senza averlo procurato. Il primo ministro chiede un governo di unità nazionale e per ottenere aiuti dall’estero annuncia “riforme”: vendita di beni nazionali, taglio dei servizi pubblici, aumento di tasse. Le multinazionali disinvestono e le banche estere vanno in perdita.

Seguo dall’Italia queste notizie e temo un destino comune, che si estenderà dagli stati meno tutelati dal sistema finanziario internazionale a quelli più garantiti. La strategia di differire il fallimento spostandolo da un paese all’altro non eviterà l’effetto a catena che ne potrà derivare. Non avrei mai immaginato che il mio lungo amore per la Grecia sarebbe diventato un giorno solidarietà per una situazione simile a quella italiana.  Guardo la foto in testa a questo blog: l’ho scattata in Grecia, in primo piano il verde e sullo sfondo un paesaggio aspro. Come quando la scelsi, ripenso agli opposti – acqua e sete, ricchezza e povertà, libertà e regime – così uguali dovunque, così vicini.

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Le voci del padrone

Ti faccio lavorare se rinunci a ogni diritto e tutela. Tanto, se mi dici di no tu, con tutti i disoccupati che ci sono uno che mi dice di sì comunque lo trovo.  Così, più o meno, si esprime oggi la voce del padrone. Con altre voci, però, perché il padrone non lo vedi in faccia e spesso nemmeno sai chi è. Tu vedi gli intermediari delle agenzie interinali che sembrano immobiliaristi, con le inserzioni sulle vetrine e gli appuntamenti, ma invece di vendere case vendono te, se va bene. Mentre se va male ti dicono che non sei vendibile, oppure te lo fanno dire da uno psicologo. Quello, dopo averti fatto domande  anche molto personali, ti fa uscire dall’agenzia senza il lavoro ma con qualcosa in più: la certezza che tutto dipenda dalla tua inadeguatezza, non da lui e tantomeno da loro.

Oppure vedi quelli delle cooperative che ti spiegano che da loro il padrone non esiste perché tutti sono un po’ padroni, e subito tu domandi chi deciderà la tua assunzione: la voteranno in un’assemblea? in un comitato di autogestione? E su queste domande il discorso si chiude ancor prima di cominciare.

Oppure molto, molto raramente vedi un dirigente pubblico che dispensa oro: un posto a tempo indeterminato. Ma a chi potrà darlo? A te che non c’entri niente con quelli a cui deve il suo buon contratto? E quelli chi sono? Guai a chiamarli padroni perché si offendono: loro sono amministratori pubblici, rappresentanti dei cittadini. In definitiva i tuoi padroni sarebbero i cittadini, ma non si è mai visto un cittadino che decida sui dirigenti e sui posti pubblici.

Oppure vedi un manager famoso, sul giornale o alla televisione, che parla di te e di tutti quelli che come te, con la loro fatica quotidiana, finora gli hanno garantito una fortuna. Dice che dovete smetterla di pretendere tutele e diritti sindacali, altrimenti la produzione verrà spostata in qualche altro paese e perderete il lavoro. In realtà lo stavate già perdendo, perchè il manager aveva già deciso di migrare, ma gli fa comodo raccontarsela così.

Ma il padrone vero dov’è? Una volta lo si vedeva in faccia, oggi no. Così tutto si mescola, parte e controparte, peso e contrappeso, responsabilità e irresponsabilità. Così salta la dignità del lavoro, salta il riconoscimento del lavoratore e dell’aspirante lavoratore come portatori di diritti. Saltano i contratti, le trattative sindacali e quindi anche i sindacati. Che, come i padroni invisibili, sono ormai come gusci: duri fuori (nel difendere le loro personali rendite di posizione) e vuoti dentro, senza ruolo e valori. Un po’ come i partiti che rimangono a guardare, pezzo a pezzo, il trasferimento all’estero di quel che resta dell’industria italiana senza battere ciglio, anzi con una vena di comprensione per le varie voci del padrone, così simili alle loro.

Visto il quadro generale, è molto importante che una folla di disoccupati, precari, cassaintegrati e variamente occupati ieri sera si sia ritrovata a Bologna davanti a un palco, attratta non soltanto da uno spettacolo uscito dalla Rai (ormai dismessa e ridotta a inutile laboratorio di censura) per offrirsi alla piazza. Su quel palco, infatti, ben oltre lo spettacolo c’era la Fiom, da sola nella sua battaglia per contratti di lavoro ancora degni di chiamarsi tali, ma circondata da tutta quella folla.

La folla, come nel voto amministrativo e nei referendum recenti, ormai si muove ben oltre sindacati e partiti perché ha capito che la posta in gioco è alta. Ha capito che difendere la dignità e il lavoro di alcuni vuol dire difendere i diritti umani e civili di tutti, e insieme ad essi una democrazia fatta a pezzi, come le fabbriche e il loro lavoro.

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Nel giorno del suo compleanno

A volte il caso produce strane combinazioni, come ad esempio quella di farmi ritrovare (in mezzo a un mare di carte che in casa stiamo riordinando), proprio nel giorno del suo ottantesimo compleanno, l’intervento di Diego Novelli nel dibattito sulla fiducia al primo governo Berlusconi. Era il 19 maggio 1994, e rileggere le sue parole dopo diciassette anni e dopo tutto quello che nel frattempo è successo, mi ha immediatamente prodotto un cortocircuito di consapevolezza e impotenza mescolate insieme. Ne sono però riemersa, e questa è una novità, con la speranza di essere ormai alla fine del tunnel: l’abbiamo percorso tutto e ora basta, basta per noi, per i nostri figli e per tutti quegli anziani meravigliosi che ci hanno consegnato un paese libero.

Pubblico il discorso di Novelli come riportato dagli atti parlamentari dedicandone la lettura a tutti quelli che, lontani in questi anni da ogni omologazione, faranno di tutto per ricominciare.

19/05/1994 – Dibattito sulla fiducia al Governo – Intervento di Diego Novelli

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