Il peso di una sentenza

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Dopo undici anni dalle gravissime violenze compiute dalle forze dell’ordine all’interno della scuola Diaz, la Corte di Cassazione ha chiuso un percorso giudiziario fortemente condizionato condannando responsabili ed esecutori materiali. Definire questa sentenza una vittoria è impossibile, perché con essa si conferma l’entità profonda di una ferita inferta quattro volte nel corpo della democrazia italiana:  la prima quando le violenze sono state preordinate da una cabina di regia politico-istituzionale, la seconda quando sono state ordinate da una catena di comando organicamente collegata, la terza quando sono state eseguite da un braccio armato coeso,  la quarta quando depistaggi, menzogne e pressioni di ogni tipo  hanno anticipato e accompagnato tutte le fasi processuali.

E’ un senso di irrisolto quello che oggi, nonostante la sentenza, pesa sulle vittime e su tutti i cittadini di questo stato che, pur definendosi democratico, si è permesso una simile devianza. Quel peso va ben al di là delle lesioni subìte, delle prescrizioni sopraggiunte, dei massimi responsabili (della politica e delle forze dell’ordine) usciti indenni dalla vicenda e oggi seduti sugli alti scranni delle stesse istituzioni che hanno violato, innanzitutto non rispettando la separazione di poteri che regge il sistema democratico. A personaggi simili si potrebbe imputare molto altro, richiamando un “io so” di pasoliniana memoria: certezza popolare, indipendente dal lusso della prova che non le è mai concessa.

Pur sorvolando sul resto per amore di oggettività, mi scappano appena due nomi: Fini e De Gennaro. Nomi potenti, continuità di tanta destra e sinistra reciprocamente fedeli, per accordi di poltrona e non solo. All’opposto, esistono giudici e pubblici ministeri semisconosciuti che hanno operato con limpidezza e coerenza, nonostante le pressioni subìte. A sentenza emessa ho in mente Enrico Zucca e una sua intervista di qualche tempo fa: ai pochi come lui dobbiamo la conquista di frammenti di verità, contro ogni  insabbiamento che generalmente ricopre le più oscure vicende italiane.

L’abisso nel quale il paese è precipitato rende oggi improbabili tre passi in avanti necessari: una pubblica scusa da parte dello stato, in nome della sua responsabilità anche politica; l’introduzione del reato di tortura; la revisione di norme sopravvissute al regime fascista, come quella che punisce pesantemente devastazione e saccheggio e che rischia di far scontare a dieci manifestanti anti-G8 ben cento anni di carcere.

Anche uno soltanto di questi tre passi in favore dei diritti civili da un lato attenuerebbe il pessimo servizio reso alle vittime straniere e ai loro paesi e dall’altro favorirebbe la ricomposizione del rapporto tra cittadini e istituzioni, oggi così profondamente lacerato.

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Stanza numero sette

Seduta, la gonna stretta
sulle gambe raccolte
mani sulle ginocchia
e curva della schiena solenne:
così la vedo di spalle
rivolta alla finestra
e ai campi, persa dietro
a una vita andata

come tante,
in avanti per istinto di madre
e poi ferma allo specchio
che ripete

chi era per strada
non l’ha vista, eppure
è andata
eppure è tornata (1996)

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A Pomigliano

Immagine anteprima YouTubeA Pomigliano, tra gli operai dell’ex stabilimento Fiat, nessuno degli oltre trecento iscritti alla Fiom è stato finora richiamato a lavorare. La Fiat, per bocca di Marchionne, ha sempre negato il suo comportamento discriminatorio. Ha anche spiegato che, dopo la firma del contratto separato con altre organizzazioni sindacali, non trattenendo più quote sindacali Fiom, non ne conosce nemmeno gli iscritti.

Intanto pare che parte degli iscritti Fiom sia passata alla Fim, confermando il fatto che per lavorare è meglio cambiare sindacato. Oppure, viene di aggiungere, non iscriversi proprio.

Ad altre sentenze che un po’ dovunque in Italia stanno riconoscendo le ragioni della Fiom, ora si aggiunge anche quella su Pomigliano, avamposto della strategia aziendale della Fiat che pretende di piegare ai propri interessi Costituzione e leggi, contratti e libertà sindacale, dignità e vita dei lavoratori e delle loro famiglie.

A Pomigliano, che è anche avamposto di chi non si è fatto piegare dal ricatto del lavoro, ora la Fiom potrà tornare in fabbrica. Una battaglia vinta, ma la situazione è difficilissima anche per la minaccia della Fiat di chiudere lo stabilimento e di lasciare l’Italia.

Sulle spalle della Fiom di Maurizio Landini e dei suoi iscritti da anni grava un peso che nessuno nelle istituzioni, nei partiti e nei sindacati ha voluto mai condividere. Quel peso è infinitamente grande sia per la sproporzione delle forze in gioco (un manipolo di lavoratori contro la Fiat) sia perché in pochi si stanno battendo per i diritti di tutti senza nemmeno un grazie. Anzi, un ritiro della Fiat rischia di tornare loro addosso come un boomerang, con una perdita del lavoro generalizzata.

Eppure, per la maggioranza di noi la possibilità di futuro si annida proprio in piccole sacche di resistenza come quella di Pomigliano, pronta a spendersi fino in fondo, con ragione e anche con sacrosanta emotività. Proprio lì dentro dovremmo guardare, se vogliamo davvero salvarci.

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