Insieme agli studenti

studentiBisogna stare tra gli studenti per respirare aria nuova. Specie quelli medi, leggeri e aperti come un libro che si sta scrivendo, sempre in cerca di esempi da assorbire con empatia e senso critico. Per niente omologati o storditi dalla rete come qualcuno pensa, hanno una grande curiosità che fa saltare anche le connessioni più tossiche.
Anche per questo i loro inviti alle autogestioni e alle occupazioni scolastiche sono per me una benedizione. Vado e porto quello che ho: qualche laboratorio, un po’ di esperienza e tanta fiducia.
Ieri, ad esempio, ero in una grande scuola per fare insieme agli studenti un piccolo viaggio nella poesia contemporanea. Che poi è diventato anche altro, come sempre accade quando le esperienze si costruiscono insieme: leggendo Brodskij o Walcott si è parlato anche di sé e di un futuro possibile.
Era una giornata bellissima, il sole asciugava le colline martoriate da un nubifragio omicida. Nonostante le infiltrazioni d’acqua e i sacchi di plastica stesi qua e là per proteggere le attrezzature, in quella scuola circolava un sano fermento, un cercare di capire che si respirava a pieni polmoni. Una vera manna per noi grandi, sempre alle prese con apnee impossibili e rare bombole d’ossigeno.

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Primo maggio di festa, ma forse mi confondo

Immagine anteprima YouTubeNegli anni Settanta ascoltavo questa canzone. Oggi mi è tornata in mente per una strofa che dice più o meno: primo maggio di festa, oggi, ma forse mi confondo. Potenza delle parole, che tornano dopo quasi quarant’anni a esprimere perfettamente uno stato di personale smarrimento. Lì ci si riferiva al Vietnam (quanti Vietnam ancora in giro per il mondo e anche nelle nostre strade, quanti sono mandati o vanno inconsapevolmente al macello), qui ci si riferisce al lavoro che dava dignità e gioia e che ora non c’è o se c’è diventa precarietà, ricatto, rischio, malattia, violenza, morte. Di lavoro si muore e di non lavoro si muore lo stesso. E allora oggi cosa si festeggia: forse i centri commerciali e i negozi aperti, la disoccupazione, il lavoro mascherato per non essere retribuito, l’Ilva, la Thyssen o Piombino, il caporalato e la manodopera nera, i tradimenti sindacali e i tentativi repressi di darsi nuove rappresentanze? Forse non è più festa o forse mi confondo…

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Quell’ultima sedia

Carlo MazzacuratiLa sedia della felicità, film uscito a tre mesi dalla scomparsa del suo regista Carlo Mazzacurati, ha tre grandi pregi: è complesso e graffiante ma anche leggero e tenero; mescola toni e forme differenti (ironia e comicità, commedia e fiaba, realismo e immaginazione), portandoli tutti insieme a un equilibrio di contenuti e di stile; consegna allo spettatore un messaggio vitale e liberatorio.
La morte che corre dentro il film è improbabile e comica esattamente come la vita, e brulica di personaggi e situazioni spinti fino al paradosso, esilaranti anche nelle estreme unzioni e nei cimiteri, irridenti e dissacranti con i simboli e i luoghi della religione.
Eppure tutto è profondamente rispettoso e amorevole perché tutto è vita, anche quando esce prorompente dalle tonache e mostra le sue debolezze, i suoi cedimenti, le sue cadute verticali.
Tornano echi di altri film e dei luoghi d’origine (Padova e il Veneto), con cui il regista si confronta in un sottile gioco di intelligenza. La vena yiddish da lui stesso dichiarata è riduttiva: c’è un’interrogazione che attraversa con estrema vitalità tutto film e ne diventa parte in modo più composito e originale, più suo.
Sfilano molti temi cari al regista, anche sociali, attraverso persone semplici che per uno scarto di prospettiva si fanno simboliche, quasi magiche. Come gli animali (cinghiali, orsi) e gli attori, i paesaggi incontaminati e i luoghi di lavoro.
Sfila tutta una vita: tanto Veneto e qualche indizio di Toscana, gli amici, la paternità, l’amore. E poi un dono più intimo da lasciare a chi sa, nascosto nell’imbottitura di quell’ultima sedia che regge non soltanto la trama del film. Una felicità da cercare, fosse anche di un solo momento. Oppure infinita, oltre una linea di montagne alla fine del film: come un sorriso generoso e largo, per sé e per tutti. Come una specie di magico coraggio.

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